Nel 1996 mi regalarono il videogame “Phantasmagoria” per PC sviluppato della Sierra Entertainment e ideato da Roberta Williams. Mi piacque così tanto che decisi di scriverci un racconto (modificando pesantemente alcuni aspetti della trama originale, incluso il finale), una storia che ovviamente non può però essere commercializzata, perché non ne posseggo i diritti. Quindi fu una cosa così giusto per divertirmi, all’epoca non c’era Facebook e giocare in strada con gli altri bambini risultava essere noioso agli occhi di un futuro sociopatico.
Bene, oggi ho scovato il file del mio dattiloscritto e ho pensato di pubblicare i 30 capitoli di questa storia per compiacere i più temerari.
Alcune avvertenze:
– Gli argomenti sono per un pubblico “adulto”.
– Lo scrissi a 14 anni, siate clementi. Anche perché non potendoci ricavare niente non ho fatto alcun lavoro di correzione ed editing. L’ho incollato qui sotto così com’era. Però se proprio volete farmi una critica sulla grammatica e la sintassi, sarà ben accetta, solo vi chiedo di allegare al commento l’immagine scannerizzata del vostro quaderno di italiano della terza media.
DISCLAIMER
Phantasmagoria appartiene alla Sierra Entertainment che ne controlla i diritti. Questo lavoro non è stato scritto, né presentato a scopo di lucro. Qualora la Sierra Entertainment desiderasse la rimozione di questo scritto, potrà comunicarlo all’autore del blog mediante questo indirizzo: [email protected]
Una volta accertata l’autenticità del mittente, cosa che può essere tranquillamente compresa da un’email dell’azienda, il contenuto verrà eliminato subito.
PROLOGO
Fin da bambina avevo un incubo.
Dondolavo su e giù da un’altalena, attorno a me c’erano cinque donne vestite di nero che mi fissavano. Ognuna di loro stringeva un fiore, poi si sentivano delle grida, rumori di catene, pianti di bambini e io ero lì che dondolavo. Ma non era più un’altalena, era una sedia, una sedia bianca con delle cinghie e delle morse. Vedevo mia madre e mio padre, si abbracciavano piangendo.
A un tratto un rumore proveniva dall’alto, una lama scendeva verso di me.
CAPITOLO 1
Quello che mi è capitato è solo e unicamente frutto del male e di tutti i suoi abomini, cercavo la felicità, volevo salvare la mia famiglia, ma non sono riuscita a salvare neanche me stessa.
La mia storia non ha spazio nei rapporti ufficiali, anche perché nessuno vi ha mai creduto e forse se non l’avessi vissuta in prima persona sarei scettica anch’io, comunque tutto è cominciato quando mio marito Donald trovò quella casa.
Si recò a Home per un servizio fotografico per la rivista People, Don in quel periodo lavorava come freelance per diverse testate. Il servizio era incentrato sulla vita di un noto attore hollywoodiano originario di quella zona, che non gli portò via più di mezza giornata. Sulla strada del ritornò notò tra alte siepi incolte una straordinaria villa con un enorme cartello “VENDESI”.
Scese dalla macchina e si avvicinò al cancello d’ingresso. Un obsoleto lucchetto arrugginito gli impedì di andare oltre, prese quindi la sua reflex e scattò una foto alla facciata della casa.
Quella foto lo stregò, per giorni non fece che parlarmi di quella casa, di come si imponesse sul panorama circostante, di quanto fosse elegante, raffinata… Don sapeva essere molto persuasivo quando gli faceva comodo.
Passò poco meno di un mese e dopo aver fissato un appuntamento con un agente immobiliare, mi convinse a seguirlo in quella cittadina. Avrei dovuto vedere con i miei occhi.
Ad attenderci c’era un uomo dalla brutta presenza, la sua voce era stridula decisamente irritante, scoprii presto che si trattava dell’uomo con cui mio marito aveva parlato al telefono. Don comunque era eccitato perché una casa come quella non l’aveva mai vista, e quando al telefono gli venne comunicato il prezzo non riusciva a credere alle sue orecchie.
Forse per via del mio carattere di scrittrice mi ritengo una persona molto scrupolosa, ma non riuscivo a capacitarmi di come un tesoro potesse essere così a buon mercato. Il consulente si limitò a dire che essendo un po’ fuori mano dalla città aveva perso valore nel tempo e quindi interesse, non ci parlò di quello che scoprimmo in seguito.
«La prendiamo!» disse Don dopo aver visto l’atrio d’ingresso, era enorme tutto in stile ottocento. Uno scalone rosso antico portava al secondo piano, i tappeti, le pareti, il camino… era tutto perfetto.
«Alcuni di questi mobili furono acquistati a un’asta clandestina dall’ex-proprietario, si dice che provengano dalla Reggia di Versailles… ma sono solo voci». Disse l’uomo paffuto con aria preparata.
«Cosa può dirci di lui?» gli chiesi fissando il marmo del pavimento.
«Era un uomo potente, i suoi genitori furono i fondatori di Home, si dice che facesse il prestigiatore nel tempo libero». Proseguì sfogliando delle pratiche.
«Ok, deve dirci altro?» lo stroncò Don afferrando l’attizzatoio del camino.
«Beh… la corrente elettrica e il gas sono già allacciati, per il telefono potrei far arrivare un tecnico in settimana. L’arredamento è incluso nel prezzo, anche se c’è una buona ditta locale che potrebbe liberarvi di ciò che non vi serve cavandovela con poco. Ah! Dimenticavo di dirvi che alcune porte sono chiuse, dovrei avere un paspartue giù in ufficio. Magari posso farvelo avere stasera… se dite sì ora».
«Don credo che sia prematuro prendere decisioni affrettate, magari potremmo prenderci un paio di giorni per pensarci… che ne dici?» gli dissi stringendogli la mano.
«Adrienne, questa casa è tutto quello che ho sempre desiderato. Per te può essere un posto per facili ispirazioni e inoltre il prezzo è decisamente accessibile».
Accettammo. Due giorni dopo arrivò il camion dei traslochi, in due giorni ero appena riuscita a vedere la casa, mi mancavano ancora i giardini per non parlare delle porte chiuse. Don stava creando una camera oscura per i suoi rullini mentre io mi limitavo a curiosare.
Domenica 16 ottobre ore 9:00
«Ciao amore!» disse Don entrando in cucina. «Vorrei delle frittelle, se vuoi posso barattarle con un bacio».
«Ok, ma valgono di più di un bacio», gli risposi porgendogli il vassoio con le frittelle. Don si avvicinò e mi baciò, poi dopo il primo morso mi chiese «che cosa fai oggi?»
«Ho appena finito di togliere le cose dalle scatole, credo che andrò in città per farmi dare le chiavi da quel nano…» Don sorrise, «Adrienne, abbiamo per caso uno sturalavandini in acido? Il bagno al secondo piano dove sto allestendo la camera oscura ha il lavandino intasato».
«No, non credo proprio».
Accanto al tavolo c’era uno scatolone, lo raccolsi.
«Guarda Don le decorazioni natalizie! Ti ricordi questo?» sollevai un piccolo pupazzo di neve. «Me lo regalasti il giorno che mi chiedesti di sposarti».
«Sei sicura che te l’abbia chiesto io?» Rispose scherzoso. «Sì!» esclamai dandogli uno spintone.
«Ah! Sì certo che mi ricordo, vorrà dire che terrò questo con me per ricordarmi i vecchi tempi… per non parlare di quella notte». Concluse infilandosi il pupazzo di neve in un tascone del pantalone da lavoro.
«Ora sarà meglio che torni a lavoro, il bagno mi aspetta». Disse alzandosi dalla sedia e dandomi un ultimo bacio.
Poco dopo presi lo scatolone e mi avviai verso la dispensa, a pochi centimetri dalla porta c’era un tappeto, faceva strane pieghe, lo spostai con un piede e con mia sorpresa scoprii una botola. Purtroppo per quanto mi sforzassi non riuscivo ad aprirla, mi sarebbe servito qualcosa con cui fare leva. Uscii dalla cucina e dopo aver attraversato la sala da pranzo mi ritrovai nell’atrio. In un angolo della sala c’era una strana macchina che prediceva il futuro, funzionava a gettoni. Era una sorta di cabina con dentro il pupazzo di una zingara con in mano un mazzo di tarocchi. Era indubbiamente l’oggetto più kitsch che io avessi mai visto, forse qualcosa di cui liberarsi in effetti c’era. La attivai per curiosità con uno dei gettoni poggiati sul piano d’appoggio del manichino, in totale ce ne erano sette. Dopo un piccolo show di luci e suoni uscì un bigliettino, lo lessi “Il male apparirà ancora una volta”.
Non ero di certo il tipo che credeva a queste stupidaggini, salii le scale e andai a prepararmi per andare in città.
Nell’ufficio del consulente c’era una strana puzza di muffa, la sua segretaria era chiaramente una sgualdrina visto che indossava una minigonna simile a una cintura e inseriva l’argomento sesso in tutte le conversazioni.
«Prego si accomodi» disse l’uomo.
«Ecco l’atto di proprietà della tenuta dei Carnovash, è venuta per questo giusto?» Mi chiese porgendomi delle carte.
«In verità sono venuta per le chiavi, ma già che sono qui prendo anche questo».
«Ah… giusto le chiavi, per la verità avrei solo questo paspartue. Dovrebbe aprire tutte le porte» disse porgendomi una grossa chiave in ottone.
«Ma se dovesse avere altri problemi potrà sempre chiamare un fabbro», concluse accendendosi un sigaro.
«Cos’altro può dirmi sulla tenuta?» Gli chiesi infilando la chiave in borsa.
«Venne costruita nel 1852 da un architetto francese, è appartenuta alla famiglia Carnovash fino al 1943 e in pratica fino a quando Zoltan Carnovash sparì dalle scene. Nel 1985 fu dichiarata proprietà del comune e oggi è di Donald Gordon e Adrienne Deleyne», concluse buttandomi il fumo in faccia. Mi alzai dalla sedia schifata e mi diressi verso la porta.
«Dolcezza, ricordati che il sabato l’ufficio è chiuso, ma sarò felice di darti qualsiasi ulteriore chiarimento nel mio alloggio…» disse quel mostruoso individuo toccandosi il pube.
Sbattei la porta alle mie spalle e mi diressi a casa.
Andai nell’atrio e usai la chiave su una porta di legno massello, la serratura scattò e la porta si aprì. Era uno studio, molto simile a una biblioteca. Sulla scrivania c’erano dei documenti e varie lettere intestate a Zoltan Carnovash, su una di queste c’era il timbro postale di Parigi. All’interno c’era un vecchio articolo di giornale lo lessi:
… Lo spettacolo Phantasmagoria di Zoltan Carnovash è stato un vero successo, la crudezza delle scene e l’inspiegabile susseguirsi dei vari colpi di scena hanno creato scompiglio ai piccoli borghesi provocando alcuni malanni e svenimenti da parte degli individui emotivamente più deboli. Il numero della sedia della morte ha gravemente turbato la platea. Gli applausi a fine show sono durati più di quindici minuti.
Parigi 23 aprile 1942
Sulla scrivania c’era anche una strana statuetta che mi ricordava la Vergine Maria, era in onice nero toccandogli la testa fuoriuscì di scatto una lama… era un tagliacarte. Sinceramente la trovai di cattivo gusto. Nella stanza dominava un elegante camino ad altezza uomo, mi avvicinai per esaminarne i fregi ornamentali, casualmente mi poggiai a uno dei mattoni della parete, cadde all’interno del muro facendo un grosso tonfo. Dietro al camino c’era qualcosa.
Presi il tagliacarte e lentamente tolsi i residui di calce tra un mattone e l’altro, creai un passaggio in poco tempo. Dal buco fuoriuscì un’aria gelida.
Fu allora che feci un’inimmaginabile scoperta.
CAPITOLO 2
Gettai un’occhiata, era buio pesto. Alcuni spiragli di luce si facevano strada tra la muratura circostante, il cuore mi batteva a mille per l’adrenalinica scoperta.
Mi mossi a tentoni fino a che non trovai una panca, sembrava essere una vecchia panca da parrocchia. A un tratto mi venne un’illuminazione, avevo dei vecchi fiammiferi in tasca, feci luce e capii di trovarmi in una cappella. Che ci faceva una cappella in una stanza segreta? E perché sulla planimetria della casa non risultava tutto questo spazio? Erano tutte domande senza risposta.
Mi avvicinai all’altare in pietra e scorsi un grosso libro poggiato su uno scrigno, scoprii che si trattava di un vecchio libro di famiglia dove era documentato tutto l’albero genealogico dei Carnovash, lo sollevai e gli diedi rapidamente uno sguardo, era molto pesante. Su una pagina lessi il nome “Daiana”, fu allora che il fiammifero si spense… fu allora che sentii il ringhio.
Sobbalzai e lasciai cadere il libro, mi diressi verso il passaggio nel camino a passo svelto, un alito di vento gelido mi fece rabbrividire, mi girai di scatto verso l’altare, non c’era niente. La mia razionalità mi indusse a pensare che fossero fenomeni prodotti dalla mente, allucinazioni acquisite e metabolizzate con i film dell’orrore: uno scricchiolio, un’ombra, un alito di vento potevano generarmi nel subconscio delle fantasie che in ambito diverso non avrei preso neanche in considerazione. Tornai verso l’altare e mi avvicinai allo scrigno, tolsi il gancio che lo teneva chiuso. Di scatto si aprì accecandomi con un pugno di polvere smossa, riuscii a intravedere al suo interno un piccolo libro nero, di colpo un’ombra nera ne fuoriuscì. Emisi un grido muto e intravidi con la coda dell’occhio l’ombra attraversare il passaggio nel camino, dopo pochi istanti sentii un grido di dolore, era Don. Mi catapultai nell’atrio, salii di corsa le scale e andai nella camera oscura, Don era a terra che si teneva il capo.
«Oh mio Dio! Cosa ti è successo?!» Gli chiesi impaurita.
«Niente Adrienne, quella dannata lampada mi è caduta sulla testa, avevo appena finito di avvitare le viti…» tra i folti capelli castani notai del sangue, mi avvicinai e lo strinsi forte a me.
«Non è niente, non preoccuparti…» mi disse scrollandomi di dosso.
«Okay» gli risposi alzandomi in piedi. «Mentre tu fai a pugni con la lampada vado a preparare qualcosa da mangiare… preferenze?» gli chiesi sorridendo.
«Non ho molta fame, e poi ho ancora molto da lavorare… magari mi preparo qualcosa io dopo». Rispose rialzandosi in piedi.
Volevo raccontargli della mia scoperta, ma non mi sembrò il momento giusto. Scesi al piano di sotto e prima di recarmi in cucina provai la chiave su un’altra porta chiusa. L’atrio era l’ambiente più grande della casa, c’era la maestosa porta d’ingresso, in un angolo un camino alto almeno due metri in marmo bianco, lo scalone, che era sorretto da due eleganti colonne a spirale, la porta della biblioteca adiacente a un antico pianoforte a coda, l’accesso alla sala da pranzo che dava poi sulla cucina e un’enorme porta con sopra scolpito un dragone verde, quest’ultima proprio accanto alla macchina che prediceva il futuro. Secondo la planimetria era l’accesso a un grande spazio non ben identificato. Infilai la chiave nella serratura, ma sembrava girare a vuoto. La porta era ben chiusa, mi arresi dopo un paio di tentativi. Quell’essere immondo non scherzava sul fatto di dover chiamare un fabbro.
CAPITOLO 3
Lunedì 17 ottobre ore 17:15
Su una cosa Don aveva proprio ragione. Quel posto mi ispirava, curiosare per la casa per me era come scoprire lentamente la vita dei vecchi proprietari. I loro segreti, le loro abitudini, non potevo farmi sfuggire l’occasione di scrivere un nuovo romanzo su quelle basi.
Stavo lavorando al computer nello studio quando sentii Don chiamare. «Adrienne dove sei!?»
«Don sono qui!» gli risposi togliendomi gli occhiali.
«Dove?!» gridò.
«In studio.»
Don entrò come una furia sbattendo la porta, «sempre con un culo sulla sedia! Hai comprato lo sturalavandini che ti avevo chiesto?» Chiese irato.
«Mi hai detto che il lavandino era intasato, non mi hai chiesto di comprarti uno sturalavandini… me ne sarei ricordata». Mi giustificai.
«Sai questo è tipico, io mi spacco la schiena per te e tu non sai fare altro che fottertene… ma ti dirò di più, quando ti servirà qualcosa non venire da me strisciando!» Nei suoi occhi vidi la cattiveria, era la prima volta che litigavamo per delle piccolezze. Mi guardò intensamente, poi si voltò di scatto e usci dalla stanza.
«D’accordo, andrò al negozio a comprarti quel maledetto sturalavandini!» Gli gridai contro.
Spensi il computer e uscii dalla camera, mi ritrovai nell’atrio. Presi la borsa dal divanetto vicino al camino e mi diressi verso l’uscita. La mia attenzione cadde sulla macchina che prediceva il futuro, era ancora accesa. Mi avvicinai e inserii un altro gettone, la zingara mosse la testa su e giù mischiando le carte, poi dal basso fuoriuscì un biglietto “Estranei vivono con te”. Non capivo cosa significasse. Uscii di casa ed entrai in macchina.
Arrivata in città entrai in una piccola bottega vicino a una fontana a forma di leone, all’interno c’era un vecchietto tutto arzillo che dava a martellate su un bancone.
«Buongiorno… si può?» Gli chiesi entrando.
«Oh ma certo signorina si accomodi, scusi ma stavo facendo delle riparazioni.» Disse posando il martello. «Ma mi dica, le posso essere d’aiuto?» Mi chiese sorridendo.
«Credo di si, avete per caso uno sturalavandini in acido?»
«Sì… dovrei averlo, ah eccolo. Sono 4 dollari e 54.» Disse prendendo un flacone da uno scaffale. «Non ne vendo molti per la verità, qui in città tutti preferiscono la vecchia cara ventosa!»
«Come mai?» Gli chiesi porgendogli 5 dollari.
«Sa, è un acido molto pericoloso e le famiglie nei dintorni hanno tutti dei bambini, è meglio essere prudenti in certi casi. Ma mi dica è di passaggio?»
«No, per la verità mi sono appena trasferita con mio marito. Abbiamo acquistato la tenuta dei Carnovash…» improvvisamente l’uomo cambiò espressione, leggevo stupore nei suoi occhi.
«La tenuta dei Carnovash? Non che siano affari miei, ma io non andrei mai a viverci», disse infilando il flacone in una busta.
«Perché dice questo?» Gli chiesi amareggiata.
«Gira voce che la tenuta sia infestata!» Disse il vecchio a voce bassa. Io scoppiai a ridere, l’uomo mi guardò nuovamente con quello sguardo, credo che si fosse offeso.
«Non crederà a queste fandonie… anche perché vivo lì ormai da quattro giorni e di fantasmi non ne ho visti, spero invece che non sia infestata dagli scarafaggi!» Sorrisi. «È stato un piacere conoscerla, scusi ora ma devo lasciarla». Conclusi aprendo la porta, il vecchio ricambiò il saluto e riprese a martellare.
Si stava facendo buio, la strada per arrivare a casa era completamente priva di ogni genere di illuminazione. Mi tornarono alla mente i ricordi di quando andai con Don a fare una gita e ci perdemmo nelle più buie campagne della California. Tra le siepi vedemmo un uomo che immobile ci puntava. Rimanemmo nascosti tra i cespugli tutta la notte fino a quando fece giorno e scoprimmo che era uno spaventapasseri. Non raccontammo mai a nessuno questa storia, la vergogna si faceva sentire troppo.
Una volta a casa dallo specchietto retrovisore della macchina vidi un fienile, non l’avevo mai notato in precedenza. Scesi e mi avvicinai alla grande porta di legno, l’interno era buio, intravedevo delle balle di fieno e uno strano macchinario a forma di ruota. Entrai, le pareti mi ricordavano un vecchio film ambientato nel west, concentrai la mia attenzione su una sagoma in fondo alla parete… La guardai meglio e capii che si muoveva. «Chi c’è?!» Gridai senza ricevere risposta. «C’è qualcuno?» All’improvviso provai la stessa angoscia di quella notte con Don nelle campagne. L’istinto mi diceva di scappare, ma la curiosità regnava sovrana. Feci un altro passo, la paglia si contorceva sotto le mie scarpe. Avanzai fino a un architrave di legno, poi una palla nera mi colpì. Gridai dal terrore, il mio cuore batteva a mille, fissai la palla sul pavimento… non era una palla.
CAPITOLO 4
Tirai un sospiro di sollievo, era un gatto. Di colpo mi rilassai, mi ero fatta suggestionare dalle dicerie che giravano in città, il gatto corse fuori più spaventato di me e in un lampo scomparve tra i cespugli. Mi diressi verso l’uscita quando inciampai in qualcosa, era una pentola. A pochi metri c’era un fornellino elettrico due coperte e delle carte da gioco. Qualcuno viveva nel fienile.
A un tratto sentii dei passi alle mie spalle, mi girai di scatto… era Don.
«Hai visto Adrienne? Barboni! Una persona fa un lavoro onesto, si compra una casa e poi deve dividerla con i barboni! Ma se li prendo li farò pentire di essere venuti qui!» Disse furibondo.
«Don ma che ti prende? Non ti ho mai visto così, probabilmente saranno andati via non preoccuparti». Gli dissi porgendogli la busta con lo sturalavandini.
«Eccoti lo sturalavandini, ora spero che ti tranquillizzerai». Don prese la busta e uscì dal fienile.
Non riuscivo a capire cosa stesse succedendo, quella casa stava in qualche modo infettando la nostra serenità, ma me ne accorsi quando ormai era troppo tardi.
Rientrai e mi diressi verso la camera oscura, la porta era chiusa. Bussai.
«Don sei lì dentro?» La porta si aprì di pochi centimetri, intravedevo l’occhio di Don nella fenditura. «Sì?… Cosa vuoi Adrienne?» Mi chiese lui.
«Cosa fai chiuso lì dentro?»
«Sto lavorando Adrienne, i miei superiori non sono come quel lecca culo del tuo editore, io non posso permettermi il lusso di stare seduto a scrivere al computer!» Disse chiudendomi la porta in faccia. Non credevo ai miei occhi, andai in camera da letto come una furia mi infilai la camicia da notte e mi stesi sulle coperte.
Mi svegliai di colpo, erano circa le tre del mattino, Don non era accanto a me. Credevo che la fantasia mi stesse giocando un brutto scherzo, ma sentivo un pianto, era un pianto di un neonato. Scesi dal letto e mi infilai le pantofole, uscii dalla camera da letto e sbirciai nel corridoio «Don?» Nessuna risposta. Nel buio più totale ero alla ricerca dell’interruttore del lampadario di cristalli, lo schiacciai, la luce si accese per un breve istante poi la lampadina scoppiò. Gridai e balzai contro la parete, le schegge di vetro si sparsero ovunque. «Don!» Urlai. Il pianto del bambino si faceva sempre più opprimente, penetrava nel mio cervello. Proseguii piano verso il corridoio ovest dello scalone principale, arrivai sulla soglia della camera degli ospiti, la varcai. C’era una culla di legno e frammenti di specchio su tutto il pavimento, il pianto era chiaro… proveniva dal bagno della stessa stanza. Sentivo i battiti del mio cuore scandire il tempo, spalancai la porta del bagno. Il mio stomaco si chiuse in una morsa di dolore, mi veniva da vomitare, non dimenticherò mai quella scena. C’era una neonata nuda nella vasca da bagno, gli mancava un braccio, gli era stato segato. L’intera stanza sembrava quasi dipinta di rosso, c’era sangue ovunque, poi comparve un uomo… aveva un grosso pezzo di specchio in mano, iniziò ad aprire lo stomaco della bambina. Si voltò verso di me, era Don! Aveva la bocca sporca di sangue poi ridendo disse «Adrienne tesoro hai fame?»
CAPITOLO 5
Mi risvegliai in un bagno di sudore, Don era lì che dormiva accanto a me russando come un orso.
Era un incubo, solo un terribile incubo, scesi dal letto e mi diressi verso la cucina, scendendo le scale vidi la porta della camera degli ospiti. La aprii, non mi sorpresi nel vedere la stessa culla, l’avevo già notata il giorno che venimmo a vedere la casa, la cosa che mi turbò fu la presenza di uno specchio rotto appeso alla parete, entrai nel bagno e non vidi niente di insolito. Uscii da quella camera e andai a preparare la colazione.
Martedì 18 ottobre ore 12:30
Ricordo che quel giorno il cielo era azzurro e non tirava un filo di vento, io e Don eravamo in giardino a fare un pic-nic a base di panini e macedonia. Don si accese una sigaretta.
«Don, ma tu non fumi!» Esclamai meravigliata.
«La vuoi smettere di dirmi cosa devo fare? Stai diventando insopportabile!» Concluse con tono isterico buttandomi la sigaretta addosso.
«Don sei impazzito?! Non ti riconosco più. Da quando lavori a quella camera oscura sei diventato psicotico». Don mi guardò confuso, poi si tenne la testa.
«Cos’hai? Stai male?» Gli chiesi avvicinandomi.
«Non ho niente Adrienne, solo un po’ di mal di testa… forse avevi ragione tu ho bisogno di un po’ di riposo». Si alzò ed entrò in casa dalla porta sul retro che comunicava con la sala da pranzo, io stavo sistemando le cose nel cestino di vimini quando sentii un rumore, c’era qualcuno dietro l’albero verso l’ingresso principale. «Chi c’è?» Gridai, mi avvicinai con cautela e vidi la porta del fienile chiudersi. Pensai che probabilmente mi stessi sbagliando come al solito quindi mi avvicinai alla porta e impugnai la maniglia, una mano mi afferrò alle spalle. Mi voltai di scatto, uno strano individuo alto quasi due metri mi piombò addosso.
«Signora!… Non abbia paura, io sono Cyrus!» disse balbettando. Aveva circa diciotto anni, era sporco, i suoi vestiti malandati puzzavano di vecchio. Dalla sua dialettica capii subito che non aveva frequentato alcuna scuola.
«Ma chi sei?!» Gli dissi scrollandomi il suo braccio di dosso.
«Io e la mamma viviamo nel fienile… Oh! La mamma ha bisogno di aiuto mi segua!» Esclamò agitato lanciandosi nel fienile. Lo seguii cauta e vidi delle piccole gambe agitarsi da un buco nel soffitto. «Qualcuno mi aiuti!» Gridò una voce dall’alto.
«La mamma è incastrata, è sprofondata mentre era di sopra». Disse Cyrus in lacrime.
Localizzai la scala a chiocciola che portava al piano superiore, era stretta, Cyrus non sarebbe mai riuscito a salirci. Arrivai al piano superiore.
«Signora mi aiuti!» Esclamò la donna cercando di divincolarsi. Aveva un buffo cappello rosso stile folletto, capelli ricci grigio topo e una voce molto spiccata. La scena era indubbiamente comica, ma riuscii a trattenere le risate, mi avvicinai alla signora e la afferrai per le braccia.
«Signora ora tirerò con forza, lei cerchi di spingere». Le dissi con tono rassicurante. La signora non faceva altro che lamentarsi e iniziò a irritarmi, tirai con tutta la forza che avevo, le travi di legno scricchiolarono. Tirai ancora più forte, la donna venne come sputata dal pavimento. Emisi un sospiro di sollievo. La signora si tolse la paglia di dosso e si avviò verso il piano di sotto. Scesi anch’io le scale e mi avvicinai ai due.
«Ehm signora… grazie per l’aiuto. Mi chiamo Harriette e questo è mio figlio Cyrus». Disse sorridendomi indicando il ragazzo che timidamente annuiva.
«Signora, mi dispiace dirvelo, ma dovete andarvene… questa è proprietà privata». Le annunciai incrociando le braccia.
«Ho pensato molto a questo fatto della proprietà e tutto il resto e sa che le dico? Lei ha bisogno di noi!» Esclamò con aria saccente la donna.
«Bisogno?» Risposi io.
«Certo! Come farete lei e suo marito a occuparvi di tutto questo? Mio figlio Cyrus è un po’ ingenuo, ma è molto forte, potrebbe occuparsi dei lavori pesanti… io invece sono un’ottima domestica sa!» Concluse euforica.
«Non saprei…» Dissi.
«Su! Non vorrà mandarci in mezzo a una strada, non vogliamo essere pagati, ci basta il fienile». Iniziava a farmi pena, mi sembrava una brava persona, e poi mi sarebbe servita una mano in casa.
«Ok Harriette, può cominciare domani, venga nell’atrio in mattinata». I due esultarono e si abbracciarono.
«Grazie signora, non se ne pentirà!» Disse lei.
«Come si chiama?» Mi chiese porgendomi la mano.
«Mi chiamo Adrienne, piacere di conoscerla», le strinsi la mano sorridendole, Harriette mi guardò, poi mi aprì la mano e mi fissò il palmo.
«Cosa sta facendo?» Le chiesi spazientita.
«Sono una chiaroveggente, le sto leggendo la mano» disse, vantandosene.
«No grazie, non credo a queste cose». Le risposi infastidita, la donna ignorandomi fissò attentamente il mio palmo poi annunciò.
«La sua linea della vita è lunga e prosperosa, però c’è una strana curva che la incrocia», disse cambiando tono.
«Sarebbe?» Chiesi io con aria scettica.
«No, no niente…» concluse la donna infilandosi le mani in tasca.
Dopo alcuni minuti rientrai in casa, il camino era accesso ma faceva ugualmente freddo. Non so perché, ma iniziai a fissare l’attizzatoio, era di ferro, aveva una strana forma a curva. Mi avvicinai e lo raccolsi, era pesante. Sul camino c’era il quadro di un uomo, probabilmente era Zoltan Carnovash, sembrava quasi che mi sorridesse. Mi diressi in cucina portando con me l’attizzatoio. A un tratto mi venne un’idea. La botola, la botola nella dispensa. Avrei potuto usare l’attizzatoio per forzare la serratura. Aprii la porta della dispensa e accesi la luce, usai l’attizzatoio come leva, dopo alcuni istanti la serratura si piegò. Posai il pesante attrezzo a terra e sollevai il coperchio, dai miei piedi partiva una ripida scalinata in pietra. Era decisamente buio la sotto, non riuscivo a vedere più di un paio di scalini. Mi ricordai dei fiammiferi, ne accesi uno e mi addentrai nelle tenebre.
CAPITOLO 6
Il fiammifero emanava una lieve luce gialla, scesi lentamente i gradini fino a che non mi accorsi di quanti fossero. Sarò scesa di almeno dieci metri, arrivai in una piccola stanza piena di botti di vino, usai il fiammifero su una torcia d’epoca e la accesi. Aprii un rubinetto di un barile, uscì una densa goccia rossa, mi bagnai il mignolo e lo portai alla bocca. Era squisito, il vino più buono che io avessi mai assaggiato.
Scorsi una porta dietro una fila di casse, mi avvicinai. Mi infilai tra le botti e diedi un colpo alla porta, era uno stanzino di un metro per due, c’erano delle catene sulle pareti. Ne rimasi inorridita. Qualcuno era stato tenuto lì incatenato? Era questo che mi domandai. Per terra c’erano delle carte. Le raccolsi… era una lettera scritta da Zoltan Carnovash:
“20 dicembre 1941
Caro Geremia,
non vedo l’ora di vedere quel libro, se è autentico sarò disposto a darti qualsiasi somma pur di averlo. Quel piccolo libro nero significa molto per me e per la mia carriera.
La mia cosiddetta magia è solo illusione, invece quel libro contiene la pura magia nera, quella che gli egizi usavano per parlare con il mondo degli spiriti.
Viene a casa mia il più presto possibile.
Saluti
Zoltan”
Piccolo libro nero… Pensai subito a quello che vidi nella cappella dietro al camino dello studio. Infilai la lettera in tasca e mi diressi verso la scalinata, sul penultimo gradino c’era un martello, lo raccolsi. Era pesante non so perché ma pensai che potesse essermi utile. Lo infilai nel tascone del jeans e presi la lampada. Iniziai a salire lentamente le scale, anche con la torcia la luce risultava essere poca. Improvvisamente sentii un rumore provenire dall’alto. Puntai lo sguardo verso la cima, la botola si stava chiudendo. Iniziai a correre verso l’uscita, la botola si chiudeva sempre più velocemente. Inciampai a pochi metri dall’uscita, la lampada cadde giù per le scale e si distrusse, la botola si chiuse. Il buio assoluto.
Ero in preda al panico, mi misi sotto la botola e iniziai a spingerla, niente. Iniziai a gridare, chiamai Don, nessuna risposta. Accesi un altro fiammifero, era l’ultimo, cercavo intorno alla botola una maniglia, una fenditura per far si che si aprisse, ma non trovai niente.
Di colpo il fiammifero si spense, uno spiffero gelido proveniva dal basso, come potevano esserci degli spifferi in una cantina? Mi accovacciai in un angolo e rabbrividii al pensiero di rimanere chiusa per sempre lì sotto. Iniziai a prendere la botola a martellate, ma riuscii solo a scalfirla. A un tratto mi si gelò il sangue, non riuscivo a credere alle mie orecchie… Non riuscivo a darmi una spiegazione scientifica, ma dal basso sentivo chiaramente un forte rumore di catene.
CAPITOLO 7
Iniziai a tremare, in un attimo mi tornarono alla mente tutti i racconti sui cimiteri che si dicevano al liceo, sentivo che c’era qualcuno lì sotto con me. Ne ero stranamente certa.
Afferrai saldamente il martello e iniziai a scendere le scale sostenendomi a una parete, era letteralmente buio pesto. Iniziai a sudare freddo, il cuore mi batteva a mille. Il rumore delle catene si era placato, arrivai nella cantina tremando. Dalle fenditure della porta dello sgabuzzino dove stavano le catene vedevo chiaramente una luce, una luce che ovviamente prima non avevo visto. Mi avvicinai alla porta e afferrai saldamente la maniglia con una mano, mentre nell’altra tenevo saldo il martello, tirai l’anta della porta verso di me e rimasi incredibilmente stupita. Uno dei mattoni a cui era appesa una catena era caduto, dietro il mattone vedevo la luce del sole, mi affacciai era un pozzo. Un pozzo che comunicava con la superficie, l’avevo già notato qualche giorno prima, ma non mi ero accorta che fosse secco. Iniziai a prendere a martellate la parete, in un attimo crollò. Una nube di polvere mi accecò per un istante, entrai nel pozzo e annaspai un po’ d’aria fresca. Avevo la sensazione di camminare sui biscotti, buttai un’occhiata a terra e con orrore vidi centinai e centinai di scarafaggi. Erano enormi, iniziarono a salirmi per le gambe, cominciai a dimenarmi facendo si che tutte le ragnatele presenti si unissero a me. Mi aggrappai alla fune del secchio con un balzo, dopo pochi metri di salita si staccò facendomi precipitare in un’odissea di piattole. Iniziai a gridare per la disperazione, fu allora che vidi qualcuno in cima al pozzo.
«La prego mi aiuti!» Gridai con tutta la mia voce che avevo in corpo cercando di scrollandomi gli insetti di dosso.
«Adrienne è lei?» Chiese una voce familiare dalla sommità del pozzo. «Sono Cyrus, io e la mamma stavamo raccogliendo della legna qui in giardino…» Disse con aria tonta.
«Cyrus aiutami, lanciami una fune… Oppure chiama tua madre!» Gridai disperata.
Cyrus sparì dalla superficie del pozzo, riapparve dopo pochi istanti con in mano una corda, me la lanciò e la afferrai al volo.
«Signora adesso inizierò a tirare lei si tenga forte!» Gridò il ragazzo. Mi girai la corda intorno alla vita, il ragazzo mi sollevò con una certa velocità. Mi aggrappai al muretto del pozzo, sentivo gli occhi bruciare, si erano ormai abituati alle tenebre.
«Grazie Cyrus…» gli dissi con un certo affanno.
«Non si preoccupi signora, sono molto forte! La mamma dice sempre che ho più muscoli che cervello». Disse vantandosene.
«Evidentemente tua madre ha ragione», conclusi sorridendogli.
Finalmente uscii da quell’incubo. Ero sconvolta anche se non riuscivo a spiegarmi come la botola si fosse chiusa e come il mattone della catena fosse caduto così improvvisamente. Rientrai in cucina tutta sporca e mi diressi verso la dispensa. Non riuscivo a credere ai miei occhi, la botola era aperta, con tanto di attizzatoio di fianco al buco. La chiusi nuovamente facendo attenzione ai piedi, raccolsi l’attizzatoio e mi diressi verso l’atrio. Dalla macchina del futuro fuoriusciva un biglietto, lo raccolsi “Il male ti osserva, cerca degli amici”. Pensai che l’avesse magari utilizzata Don, mancava anche uno dei gettoni. Buttai il foglietto nel cestino e salii le scale, passai d’avanti alla camera oscura, la porta era chiusa. Bussai, ma non ebbi risposta. Andai al piano superiore e mi diressi verso il bagno, avevo solo voglia di farmi una doccia. Passando per la camera da letto vidi Don dormire. Capii che aveva preso in considerazione il mio consiglio di riposarsi. Entrai nel bagno e aprii i rubinetti, presi il bagnoschiuma dal mobile e mi districai i lunghi capelli biondi. Dallo specchio del bagno avevo una chiara visuale del corridoio che conduceva alla porta della mansarda. Dall’esterno della villa si vedeva chiaramente una torre, pensai che probabilmente vi si accedesse da quella porta. Chiusi i rubinetti e mi diressi in quella direzione, la porta era chiusa. Guardai attraverso il buco della serratura, c’era una chiave dall’altro lato. Mi tolsi una forcina dai capelli, dopo svariati tentativi riuscii a far girare la chiave la serratura scattò. La porta si aprì. A un tratto pensai a una cosa: perché la porta era chiusa dall’interno?
CAPITOLO 8
Una rampa di una decina di scalini era contornata da lampade antiche, usai gli interruttori per accenderle. Dopo un sibilo tipico da voltaggio elettrico se ne accesero solo due, evidentemente nessuno saliva lì su da anni.
Salii le scale e arrivai a una camera da letto. Chi poteva mai dormire in una torre? Era una camera spoglia, infondeva solitudine e tristezza. Quella stanza stonava con il resto della casa, c’era solo un piccolo lettino bianco e una cassettiera. Nel primo cassetto c’era un libro di fiabe, sul retro c’era scritto “Malcolm”. Chi era Malcolm? E cosa aveva a che fare con Zoltan Carnovash?
Gettai un’occhiata dalla finestra per vedere il panorama, c’era qualcosa di strano. Intravedevo uno strano edificio in mezzo al bosco a quasi un chilometro dalla casa. Era comunque nella mia proprietà. Avevo più domande che risposte. Fino a quel punto non potevo ancora immaginare cosa avrei scoperto il giorno seguente.
Dopo un meritato bagno di circa tre ore, mi sentii completamente rigenerata. Andai in camera da letto per vestirmi, Don non c’era. Fuori iniziò a fare buio, non facevo altro che pensare a tutto quello che era successo in quella giornata: la cantina, la mansarda, i barboni e Malcolm. Il mio carattere mi imponeva di sapere, sono una persona che deve arrivare fino in fondo alle faccende.
Mi diressi verso l’atrio, la porta della camera oscura era chiusa. Bussai.
«Don sei lì dentro?» Chiesi buttandomi i capelli dietro la schiena. La porta si aprì di un paio di centimetri, nel buio della stanza intravedevo un occhio di Don.
«Cosa vuoi Adrienne?» Disse lui con aria stufa.
«Volevo dirti che vado in città a comprare delle cose, ti serve niente?»
«Sì, brava vattene». Concluse chiudendomi la porta in faccia. Non riuscivo a credere ai miei occhi, Don non si era mai comportato così. Pensai che probabilmente era solo una questione di stress e che presto tutto sarebbe tornato alla normalità, ma mi sbagliavo.
In paese non c’era anima viva, fortunatamente i negozi erano ancora aperti. Presi il minimo indispensabile per la cena e mi diressi verso la macchina, la mia attenzione fu improvvisamente catturata da un’insegna di un negozio di antiquariato. C’era scritto “Antique Carnovash Shop”, misi le buste nel cofano della macchina ed entrai nel negozio. Era piccolo, c’era un enorme orologio a pendolo che mi ricordava una torre medioevale. Una donna sulla quarantina mi venne incontro con un gran sorriso. Aveva una targhetta, c’era scritto “Lou”.
«È veramente splendido non trova? Pensi che viene da Amsterdam apparteneva a una famiglia di nobili origini. Costa solo 4200 dollari». Disse con aria preparata.
«Per la verità vorrei solo dare un’occhiata…» la liquidai senza troppe parole.
«Capita raramente che i turisti girino per la città a quest’ora». La donna mi guardò meglio pulendosi gli occhiali.
«Io non sono una turista, mi sono appena trasferita». Le dissi ricambiando lo sguardo.
«Lei è la scrittrice che si è trasferita nella tenuta dei Carnovash?» Chiese con aria meravigliata.
«Sì, ma lei come fa a saperlo?»
«Beh, la città è piccola… e le voci corrono». Lou si accomodò su un divano rimettendo gli occhiali sul viso.
«Capisco, ma mi dica. Come mai sulla sua insegna c’è scritto Carnovash?» Le chiesi incrociando le braccia.
«Mio padre fu adottato da Zoltan Carnovash quando aveva solo sei anni, ha vissuto in quella casa la sua infanzia e se non fosse stato così ingenuo probabilmente ora non mi troverei in questo negozio, ma in una villa o in costa azzurra». Disse la donna in modo scherzoso. «Cosa intende?» Le chiesi incuriosita.
«Quando Zoltan morì, mio padre divenne l’unico erede di tutto il suo patrimonio, ma per qualche motivo scelse di dare tutto in beneficenza e la casa dove adesso lei vive venne messa all’asta».
«Quindi Malcolm è suo padre, suo padre viveva nella stanza della torre». Affermai sedendomici accanto. «Sì…» Confermò lei. «E della casa cosa può dirmi?»
«Posso dirle che mio padre non ne ha un bel ricordo, a dir la verità non vuole mai neanche parlarne. Aveva dodici anni quando fu riportato all’istituto, Zoltan e sua moglie Marie furono trovati morti e il giudice stabilì che sarebbe stato meglio farlo tornare all’orfanotrofio. Rimase all’istituto per sei anni e riuscì a rifarsi una vita solo nel 1949 quando conobbe mia madre».
«Come sono morti?… Zoltan e Marie intendo». Le domandai.
«Secondo la polizia che all’epoca aveva rudimentali mezzi di investigazione fu un omicidio suicidio, ma non furono gli unici a morire in quella casa, la stessa notte fu trovato anche il corpo di Gaston Warwick che era il guardiano della tenuta. Fu trovato mutilato a pochi metri dai corpi di Zoltan e Marie… Il caso comunque rimase insoluto. Anche perché il corpo di Zoltan sparì dall’obitorio misteriosamente, quindi non poterono proseguire le indagini». Concluse la donna porgendomi una scatola di cioccolatini. «Incredibile…» dissi sbalordita.
«Qualche giorno fa trovai in casa l’albero genealogico dei Carnovash, suo padre non è menzionato, ma è menzionata una certa Daiana. Sa dirmi chi fosse?» Le chiesi prendendo un cioccolatino.
«Daiana era la figlia naturale di Zoltan, la ebbe con la prima moglie Hortencia. Aveva sedici mesi quando uno specchio cadde nella culla durante la notte uccidendola. Fu una storia tragica, mio padre quando me la raccontò pianse».
«Quindi suo padre fu adottato da Zoltan quando lui era sposato con Hortencia, poi ebbero Daiana e successivamente il signor Carnovash si sposò con Marie?»
«No, non è esatto, Zoltan si sposò cinque volte, non so molto delle altre mogli… so solo che Hortencia adottò mio padre perché credeva di non poter avere figli, poi miracolosamente ebbe Daiana. In seguito Zoltan rimase vedovo e si risposò con una londinese, Victoria. Dopo poche settimane quest’ultima morì soffocata durante una cena con suo marito. A breve si risposò con Leonora una donna di New York City, ma anche quel rapporto finì tragicamente… A distanza di poche settimane incontrò una certa Regina di cui non si seppe più nulla. In fine si sposò con Marie». Concluse la donna con aria saccente.
«Devo dire che è la storia più tragica e complicata che io abbia mai sentito… sa dirmi come sono morte le altre mogli?»
«A dir la verità non ne ho idea, mio padre non me ne ha mai parlato».
«Sarebbe possibile parlare con suo padre?»
«A che scopo non capisco?» Replicò con aria incuriosita.
«Mi piacerebbe fare di tutta questa storia un romanzo e spero che suo padre possa darmi una mano per eliminare qualche altro mio dubbio…» le dissi con una certa determinazione.
«No, mi dispiace ma mio padre ha sofferto molto per questa storia. Ora ha una certa età e non mi sembra il caso di disturbare la sua serenità con tristi ricordi». La donna si alzò in piedi e si diresse verso una scrivania, io la seguii per un paio di passi. L’orologio a pendolo iniziò a suonare. La donna si voltò verso di me dicendo «Mi dispiace, ma è ora di chiusura… devo chiederle di uscire». Le porsi la mano, Lou la strinse e mi sorrise.
Parcheggiai l’auto al solito posto di fronte al fienile, aprii il cofano e mi applicai a raccogliere le buste, a un tratto sentii una presenza alle mie spalle. Il buio del cortile mi circondava. Mi voltai di scatto, non c’era nessuno… Urlai quando fui afferrata per le spalle.
CAPITOLO 9
«Don mi hai spaventata!» Esclamai con una certa tachicardia.
«Dove sei stata tutto il tempo?» Chiese lui fissandomi male.
«Ma non lo so in giro…» Ci fu un attimo di silenzio poi continuai «…in città». Conclusi secca.
«Mi sembra di averti detto di stare lontano da quella gente». Urlò lui. «Quale gente?»
«Quale gente? Quegli stupidi che vivono in città!» Continuò lui furibondo.
«Mi sembra che tu stia esagerando». Gli dissi dirigendomi verso la porta d’ingresso, Don mi afferrò per un braccio e mi trascinò con forza verso di lui, mi liberai dalla sua morsa.
«E tu allora, cos’hai fatto tutto il giorno?!» Gli esclamai con voce alterata allontanandomi di qualche passo.
«Non sono affari tuoi, tesoro».
«Allora sai cosa si fa, tu ti fai gli affari tuoi e io mi faccio i miei». Gli diedi le spalle e rientrai in casa. Don rimase fuori per qualche istante, poi disse.
«Lo vedremo».
Mercoledì 19 ottobre ore 7: 00
Fino a quel giorno non avevo mai creduto al male, credevo che il male fosse una prerogativa degli uomini e non dei mostri e credevo che anche la morte come la vita avesse un inizio, uno svolgimento e una fine. Per metà avevo ragione.
Mi ero appena svegliata, ero in bagno, avevo solo la camicia da notte. Mi spazzolavo i capelli allo specchio, piangevo. Eravamo sposati da due anni e non avevamo mai litigato così brutalmente.
Sentii dei passi alle mie spalle, era lui. Si avvicinò lentamente, riuscivo a vederlo nello specchio. Si era appena svegliato, indossava solo i boxer.
Ricordo che gli piaceva girare per casa in mutande, così facendo metteva in mostra il fisico da indossatore che si ritrovava. Un tempo scherzavamo molto su questo fatto.
Mi prese la spazzola e mi accarezzò i capelli. Io lo respinsi.
«Lasciami in pace!» Gli dissi tra i singhiozzi.
Iniziò a pettinarmi, era piacevole e rilassante. Mi portò i capelli dietro il collo e iniziò a baciarlo, mi sfiorò il seno con le dita. Attraverso la seta sentivo il suo calore. Mi voltai verso di lui e gli liberai il viso dai suoi lunghi capelli biondi. Mi baciò. Sentivo che tutto era perfetto, tutto era tornato come prima.
Mi sollevò, mi accolse tra le sue braccia. Mi portò contro il muro, eravamo di fianco allo specchio… continuavamo a baciarci.
Poi la musica cambiò, mi sollevò la camicia da notte, subito dopo si lasciò cadere i boxer. L’espressione del suo viso divenne cupa, non riuscivo a decifrarla. Iniziò a penetrarmi, il ritmo era lento, ma già mi sentivo come trafitta. Volevo dirgli di calmarsi, ma lui si ostinava a tenere le labbra incollate alle mie. Iniziai a soffocare, la sua lingua iniziò ad avere un sapore acido, era grossa… la sentivo quasi nell’esofago. Con una mano mi sollevo le braccia e le teneva intrappolate in una sorta di morsa. Il ritmo diventava sempre più veloce, mi sembrarono pugnalate, sentii un forte dolore lungo le anche. Riuscii a divincolarmi dalla sua faccia, iniziai a gridare dal dolore, Don non accennò a fermarsi. La sua espressione era terrificante. Continuò a scuotermi quando si lasciò cadere in un gemito di piacere, dopo alcuni interminabili secondi si estrasse dal mio corpo, ne riacquistai la sensibilità, mi sentii lacerata. Mi sembrò di svenire, quando d’un tratto sentii una sorta di ringhio, non capivo da dove provenisse. Ebbi come la sensazione che fosse Don a produrlo. Mi diede le spalle e uscì dal bagno. La camicia da notte era lacerata, mi raggomitolai in un angolo e continuai a piangere tenendomi la testa.
Non so dove trovai le forze, ma mi diedi una pulita e mi trascinai in camera da letto, mi vestii.
Non riuscivo a darmi una spiegazione di quello che era successo, non avevo ancora capito di essere stata vittima di una violenza sessuale. In quel momento non riuscivo a pensare a nient’altro. Scesi le scale e mi diressi nell’atrio, mi avvicinai alla macchina del futuro e la azionai. Le musiche erano molto più suggestive della prima volta, ne uscì un biglietto… lo lessi “Mantieni i tuoi segreti, non fidarti di nessuno”. Mi sembrava assurdo, ma iniziai a credere a quelle profezie.
Ero stanca, avevo solo voglia di un bicchiere d’acqua. Arrivai sulla soglia della cucina, a un tratto avvertii una voce, mi bloccai. C’era qualcuno in casa.
CAPITOLO N°10
Aprii lentamente la porta della cucina, sentii chiaramente dell’acqua sgorgare dal lavandino. «Salve!» Disse una voce allegra e familiare. Su uno strano sgabello di legno c’era Harriette che lavava i piatti. «Cosa ci fa qui?» Le chiesi dirigendomi verso di lei.
«Ma come non se lo ricorda più? Aveva detto che ci saremmo viste questa mattina…» Si giustificò lei asciugandosi le mani con uno straccio. Francamente con tutto quello che stavo passando avevo proprio dimenticato di aver assunto Harriette come domestica.
«Sì Harriette, ora ricordo…»
«Bhe, io sono pronta signora, mi dica cosa vuole che faccia». Aggiunse con un gran sorriso.
«Mmm… si dovrebbero fare i letti, spolverare i mobili e si dovrebbe spazzare il pavimento». Le dissi senza mezzi termini, Harriette continuò a sorridermi, poi disse «d’accordo comincio subito, c’è dell’altro?» Chiese asciugando un piatto.
«Sì, dalla stanza della torre ho visto un piccolo edificio nel bosco… Lei mi saprebbe dire di cosa si tratta?» Le chiesi versandomi un bicchiere d’acqua fresca. Harriette iniziò a scuotere la testa.
«Non sono mai entrata in quel bosco, dovrebbe chiederlo a mio figlio. Lui ci va spesso, adora cacciare i conigli». Disse la donna vantandosene. Io feci una smorfia d’incomprensione, poi le chiesi «dove lo trovo ora suo figlio?»
«Dovrebbe stare qui fuori a spaccare la legna, sa, gli ho detto io di farlo». Affermò con aria autoritaria. Mi affacciai dalla finestra della cucina e lo vidi mentre giocherellava con una falce.
Aprii la porta che dava sul retro della casa e mi diressi verso Cyrus. «Salve signora!» Disse con tono tonto il ragazzo mentre spaccava un grosso pezzo di quercia.
«Salve Cyrus». Gli risposi con un sorriso. Cyrus lasciò cadere l’accetta sul terreno e venne verso di me, indossava dei vecchi scarponi un po’ goffi, una camicetta piena di toppe e un jeans scolorito.
«Mi cercava?» Mi chiese dandosi una sistemata ai capelli.
«Sì, dalla stanza della torre ho visto un edificio nel bosco, sapresti indicarmi la strada per arrivarci?» Gli chiesi parlando lentamente.
«Oh sì… per la verità ci sono andato una volta, ma non vi consiglio di andarci».
«Per quale motivo?»
«È molto lontano e poi non c’è niente di interessante da vedere lì giù». Disse il ragazzo indicando con un dito un sentiero dietro a una grossa fontana gotica.
«Comunque dovrebbe prendere quel sentiero di mattoni rossi, dopo circa un chilometro arriverà in quel posto». Guardai nella direzione del sentiero, vidi solo degli alberi altissimi, probabilmente erano secolari.
«Grazie Cyrus, mi sei stato molto utile. Ci vediamo dopo, ora vado a fare due passi».
Il ragazzo mi salutò con un cenno della mano, raccolse l’accetta e si diresse verso il ceppo.
Dopo circa dieci minuti di cammino arrivai a una radura, non riuscivo a credere ai miei occhi. Nella mia proprietà c’era un cimitero. C’erano circa una trentina di lapidi, tutte in pietra nera, su tutte c’era incisa la lettera “C”. Riuscii a riconoscere alcuni nomi, tra cui le mogli di Zoltan. Ma non riuscivo a trovare la tomba di quest’ultimo. Il sentiero continuava all’interno del bosco, lo percorsi fino a che non raggiunsi l’edificio che avevo visto dalla torre. Era una serra. Una serra in rovina, era tutta di vetro e acciaio. La porta d’ingresso era stesa a terra, le finestre erano tutte in frantumi. Feci il giro dell’edificio, sul retro c’era un telescopio degli anni quaranta, era fissato su una specie di piattaforma girevole. Lo esaminai da vicino, era saldato in quella posizione e non poteva essere mosso. Diedi una sbirciata nell’obiettivo, era puntato sul tetto della casa. D’un tratto capii perché era fissato in quel modo, vicino alla stanza della torre vidi chiaramente un’altra finestra, c’era un’altra stanza in quella soffitta. Ma dove? Doveva essere nascosta, altrimenti l’avrei vista.
Entrai nella serra, i vari attrezzi non erano chiaramente usati da anni. Mi avvicinai a un tavolo, c’era una lettera… la lessi:
“3 dicembre 1943
Caro Gaston,
non faccio che pensare a te, ieri sera Zoltan mi ha picchiata. Credevo che avesse voluto uccidermi.
Domani sera si esibirà nello show della sedia della morte, ho in mente un piano per liberarci definitivamente di lui.
Ti aspetto nel teatro per appurare i dettagli. Quando Zoltan sparirà, saremo per sempre liberi, liberi di farci una nuova vita in un nuovo posto.
Odio questa casa, odio mio marito e odio questo suo stupido Phantasmagoria show.
Per sempre tua…
Marie.”
Capii subito che tra Marie e il guardiano doveva esserci stato qualcosa. Una relazione sentimentale probabilmente.
Mi avvicinai a una paletta da giardinaggio che era sul pavimento, appena la afferrai una forte volata di vento invase la stanza, era incredibile sembrava impossibile, ma tutte le piante presenti nella serra erano in fiore. Le vetrate erano tutte integre, a un tratto alle mie spalle comparve una donna. Riuscivo a vedere attraverso il suo corpo. Era un fantasma.
CAPITOLO 11
Mi sentivo come malata.
Quella donna aveva abiti da giardinaggio… era bruna, stava usando quella paletta su un roseto, era lo stesso attrezzo che stringevo nelle mie mani. Non riuscivo a credere ai miei occhi, ho sempre creduto che i fantasmi, gli spiriti e i mostri fossero storielle per bambini, ma a quel punto era ovvio che io mi sbagliassi.
Nella serra entrò un uomo, era ben vestito. Aveva un’aria familiare, era anche lui un fantasma. Di colpo lo riconobbi, era Zoltan. Era proprio lui, avevo ben in mente il suo ritratto nell’atrio sopra al camino.
La donna iniziò a piangere, si asciugò le lacrime con un fazzoletto.
«Perché piangi Hortencia?» Chiese l’uomo toccandogli i capelli.
«Lasciami in pace…» disse lei tra i singhiozzi. Zoltan continuò a toccarla, lei si voltò di scatto dicendogli «lascia in pace me e le mie piante!» Zoltan raccolse rapidamente la paletta affilata dal tavolo e scaraventò la donna sul pavimento.
«Certo Hortencia, lascio in pace te e le tue piante!» Esclamò ridendo. Zoltan prese una manciata di terra con la paletta e la buttò nella bocca della moglie, la donna stava chiaramente soffocando. Non faceva che ridere e mettere grossi mucchi di terra nella bocca della donna, gli occhi di Hortencia si erano come iniettati di sangue, a un tratto iniziò a fare leva con la paletta fino a che la mandibola della donna si spezzò. Io mi portai una mano alla bocca, mi venne da gridare, ma dalle mie labbra non uscì un sibilo. I denti della donna schizzarono contro le vetrate, per terra c’era un lago di sangue. Zoltan si alzò in piedi e iniziò a fissarmi. Io indietreggiai sconvolta, per il disgusto lasciai cadere la paletta sul pavimento, non riuscivo a credere che l’arnese che avevo stretto in mano fosse stato usato per quello scempio. Non appena l’attrezzo toccò il pavimento Zoltan sparì, i fiori nella serra invecchiarono di colpo, le vetrate si frantumarono, tornò tutto come prima. Avevo appena assistito a quello che ora posso definire come un monito del passato, in questo caso di Zoltan e della sua prima moglie Hortencia. L’aveva uccisa lui… non so per quale motivo, ma mi venne istintivamente da piangere.
Corsi lungo il sentiero dei mattoni rossi senza voltarmi mai indietro, avevo paura che qualcosa mi seguisse. Inciampai a pochi metri da una biforcazione che all’andata non avevo notato, gli alberi erano alti… non riuscivo a vedere la casa. Ero indecisa su quale percorso scegliere, mi sembrarono identici. Presi il primo sulla sinistra e continuai a percorrerlo per circa trecento metri, di colpo capii che era il percorso sbagliato. I mattoni cominciarono a diventare neri.
Intorno a me c’erano delle grosse statue di divinità greche, riconobbi Zeus, Afrodite, Marte… erano sparse tra gli alberi. Sembravano di marmo, non riuscivo a capire cosa ci facessero delle statue in mezzo a un bosco, erano praticamente abbandonate alle intemperie.
Ero convinta che lungo quel sentiero avrei trovato delle risposte alle mie domande, dopo circa altri cento metri il sentiero si interruppe con una statua. Era di Ade il dio degli inferi, alla base c’era un vaso di terracotta, era molto grande. Sul vaso c’era un coperchio.
Dopo svariati tentativi riuscii ad aprirlo, precipitai in un incubo… non riuscivo a crederci.
CAPITOLO 12
Non avevo mai visto un cadavere in tutta la mia vita. All’età di dodici anni affrontai il più difficile dei lutti, mia madre fu travolta da un camion, il suo corpo fu completamente devastato non riuscirono neanche a metterla nella bara. Ricordo solo che durante la veglia funebre guardai all’interno e vidi una cornice d’argento con una delle più belle fotografie di mia madre, fui contenta che i miei nonni fecero quella scelta.
Ma quando aprii quel vaso, capii che nessuno aveva scelto per quel corpo. C’era uno scheletro mummificato, aveva la mandibola frantumata, era di una donna. Si trovava lì da un bel pezzo, da anni probabilmente, in un attimo ricordai la visione nella serra, quel corpo era senza alcun dubbio della prima moglie di Zoltan, ne rimasi inorridita. Improvvisamente ebbi una folgorazione, se il cadavere nel vaso era quello di Hortencia Carnovash… chi era sepolto nella sua tomba?
Percorsi il sentiero fino a tornare alla biforcazione, presi la via sulla destra e in breve tempo arrivai al cimitero. Di colpo piombò un’aria gelida, scrutai attentamente le lapidi, su una c’era scritto “Hortencia”, il terreno era soffice. Avevo voglia di aprirla per vedere cosa contenesse, di sicuro non il cadavere della donna considerato che l’avevo visto qualche minuto prima. Ma la mia morale andava contro certe profanazioni, quindi decisi che era arrivato il momento di parlarne con qualcuno, ma chi?
Mi incamminai verso casa, a un tratto sentii un distinto rumore di pneumatici. Mi diressi verso il giardino che dava sull’ingresso principale, accanto alla mia auto c’era un furgoncino. Mi avvicinai allo sportello, non c’era nessuno. Entrai in casa, vicino al camino c’era Harriette che parlava con un uomo sulla trentina. Gli andai incontro.
«Oh… signora, quest’uomo dice di essere il tecnico del telefono…» mi disse Harriette asciugandosi le mani sul grembiule. L’uomo si voltò verso di me e mi porse la mano.
«Lei deve essere la signora Gordon, io sono Mike. Sono stato chiamato da suo marito cinque giorni fa…» disse l’uomo con un gran sorriso, gli strinsi la mano e mi accorsi che era molto calda.
«Mi chiami pure Adrienne… sì, mio marito me lo accennò qualche giorno fa, come mai è venuto così tardi?» Gli chiesi mettendo le mani in tasca.
«Per la verità della mia compagnia sono l’unico che ha accettato di venire qui, i miei colleghi si sono rifiutati, quindi ho dovuto terminare prima dei lavori in sospeso». Dopo questa sua affermazione piombò per un breve istante il silenzio, Harriette si avvicinò e disse «signora io torno a lavoro, con permesso», si diresse velocemente verso la sala da pranzo sparendo oltre la porta.
«Perché dice questo?» Chiesi a Mike con aria stufa.
«Non mi dica che non lo sa… in città c’è un folto gruppo di persone convinte che in questa casa vivano i fantasmi. Per me comunque sono solo chiacchiere, mi hanno sempre insegnato che bisogna aver paura dei vivi non dei morti». Disse l’uomo poggiando una borsa di attrezzi sul pavimento.
«Dove vuole che collochi l’apparecchio?» Mi chiese estraendo dalla borsa dei fili e una pinza.
«Su quella parete andrà benissimo», gli risposi indicando la parete accanto alla porta d’ingresso.
«Mi levi una curiosità, cosa c’è dietro a quella porta? È davvero bizzarra!» Esclamò indicando la grossa porta col dragone verde.
«A dir la verità non lo sappiamo ancora, le chiavi che abbiamo non la aprono. È l’unica porta che devo ancora aprire, dalla planimetria comunque ho capito che si tratta di un grosso spazio».
«Se vuole posso forzare la serratura, ma in questo modo danneggerò la porta…» disse Mike guardandomi fisso negli occhi. «Non si preoccupi, mio marito ebbe la stessa idea e gli chiesi di non farlo… se ora lo lasciassi fare a lei potrebbe arrabbiarsi». Lo liquidai.
In effetti, quella era l’unica porta ancora chiusa. Cosa poteva esserci di così importante da tenere sotto chiave? Di colpo mi venne in mente quello che avevo scoperto poco prima, dal cannocchiale vidi un’altra finestra accanto alla stanza della torre.
«Mike se vuole scusarmi ora avrei da fare al piano di sopra». Gli dissi sorridendogli. Salii rapidamente le scale e passai velocemente davanti alla camera oscura… era chiusa, probabilmente Don era lì dentro. Non mi andava di parlargli. Salii ancora le scale e raggiunsi la porta della mansarda, la aprii. Continuai la mia salita fino a raggiungere la camera di Malcolm, le pareti erano di pietra, solo una era rivestita di legno. Mi avvicinai a quest’ultima, diedi un paio di colpetti con un pugno. Si sentiva un forte rimbombo, l’interno era probabilmente cavo. Presi il martello e iniziai a togliere le viti delle tavole più marce, mi resi conto che passava dell’aria dalle fenditure. In breve tempo riuscii a creare un passaggio, era buio lì dentro e non avevo più fiammiferi.
Mi feci coraggio ed entrai.
CAPITOLO 13
Mi mossi lentamente, l’aria era secca e piena di polvere. Mi avvicinai alla finestra e tirai via le tende, in un istante il sole inondò la camera, era una sorta di deposito. Era piccolo, c’erano dei giocattoli molto antichi, su una parete c’erano quattro quadri molto grandi. Erano quattro donne, probabilmente erano le mogli di Zoltan, sulle cornici c’erano incisi i nomi; Hortencia, Victoria, Leonora e Regina. Mancava il quadro dell’ultima moglie, Marie, che però avevo intravisto nella loro camera da letto.
C’erano strani oggetti in quella stanza, sapevo che in vita Zoltan facesse il prestigiatore o qualcosa del genere. C’era una strana cassa perpendicolare, probabilmente con quella faceva sparire la propria assistente, poi c’era uno strano macchinario. Sembrava una ruspa dove il corpo veniva immobilizzato con delle cinghie e la testa veniva messa a incastro in una sorta di scatola che veniva fatta girare. Ricordo che al circo vidi un numero simile qualche anno fa.
Per terra in un angolo c’era un baule, era chiuso con un grosso lucchetto d’epoca. Presi il martello e gli diedi due pesanti colpi, si ruppe subito.
All’interno c’era una spilla, un ciondolo a forma di cuore con la foto di una neonata e un diario, presi quest’ultimo e lo lessi:
“16 gennaio 1942
Caro diario,
la polizia afferma che Daiana sia morta a causa di un tragico incidente, io non ci credo.
Sono convinta che sia stata uccisa, lo specchio era lontano dalla culla ed era impossibile che cadesse da solo fin lì. Forse non dovrei pensarlo, ma sono convinta che Zoltan mi tenga nascosta la verità, negli ultimi giorni è diventato scontroso e particolarmente violento. A volte mi fissa mentre preparo la cena o mentre mi occupo dei miei fiori. Sono preoccupata anche per Malcolm credo che stia soffrendo per questa situazione.
18 gennaio 1942
Caro diario,
oggi la polizia mi ha comunicato che il corpo di Daiana è sparito dall’obitorio, non riesco a crederci. Chi può avere interesse al corpo straziato di una bambina così piccola?
Zoltan è chiuso da giorni in teatro, gli ho raccontato la situazione e lui non ha fatto una piega.
Inizia veramente a farmi paura…
23 gennaio 1942
Caro diario,
ho sorpreso Malcolm mentre piangeva in bagno, era tutto sporco di sangue non vuole dirmi cos’è successo, ma credo che abbia avuto una banale perdita dovuta alla crescita e si sia spaventato.
Oggi è venuto a parlare qui a casa il detective che si sta occupando della scomparsa del corpo di Daiana, mi ha detto che non ci sono stati progressi nell’indagine.
27 gennaio 1942
Caro diario,
questa notte mi sono svegliata e Zoltan non era accanto a me, l’ho cercato per tutta la casa e alla fine l’ho visto scendere dalla mansarda. Mi ha detto che voleva dare a Malcolm il bacio della buona notte, sono sempre più convinta che mi stia nascondendo qualcosa. Non so se troverò mai il coraggio, ma comincio a pensare di andarmene da tutto questo, Zoltan non è più l’uomo che ho sposato. Sto solo aspettando la goccia che farà traboccare il vaso.
Fino a quel momento non posso fare altro che sperare in meglio.
2 febbraio 1942
Caro diario,
il dottore è venuto a visitare Malcolm, dice che ha delle lacerazioni lungo tutto il retto e che probabilmente ha subito violenze. Mi ha detto che nella sua scuola dove va anche suo figlio è stato appena licenziato un insegnante per aver abusato di alcuni alunni… Ho pianto tutto il giorno, le disgrazie continuano a perseguitarci, ma io so chi è stato veramente ad abusare di mio figlio.
Io e Malcolm partiremo per l’Europa tra un mese, fino ad allora dormirò sempre con lui. Zoltan non dovrà sospettare niente.
L’unico modo che ho per distrarmi è quello di curare i miei fiori, domani inizierò con i roseti. Ormai posso farlo solo di mattina quando Malcolm è a scuola, il pomeriggio non lo lascio un attimo da solo.”
Iniziai a chiarire le idee su quello che era successo in quella casa, non riuscivo a credere alle parole di Hortencia. Quel diario rappresentava un’altra prova inequivocabile degli scempi commessi in quegli anni da Zoltan Carnovash. Misi il diario nel baule e lo chiusi delicatamente, iniziai a curiosare in alcune scartoffie quando d’un tratto sentii delle urla.
CAPITOLO 14
Scesi di corsa le scale, le urla erano di Don. Mi affacciai dalla ringhiera dello scalone e vidi Don spintonare Mike.
«Ma cosa diavolo succede?!» Gridai mentre scendevo le scale di corsa, Don spintonò più forte l’uomo facendolo barcollare. Mike si aggrappò a un tendaggio e cadde pesantemente a terra. Di colpo si rialzò e colpì Don con un pugno… Don non si mosse di un millimetro. Mi misi fra i due e li distanziai con le braccia. «Allora volete spiegarmi cosa significa?!» Esclamai alterata.
«Stavo sistemando i cavi dietro a quel mobile quando mi ha aggredito…» disse Mike con aria sconvolta.
«Non credere che non sappia perché sei venuto qui figlio di puttana! Vuoi scoparti mia moglie?! È questo che vuoi?!» Non riuscivo a credere alle parole di Don, non gli avevo mai sentito dire delle frasi simili.
«Ma di cosa cazzo sta parlando?!» Rispose Mike decisamente furioso. Notai che la situazione cominciò a sfuggirmi di mano, raccolsi la borsa per gli attrezzi e mi avvicinai a Mike. «Credo che è meglio che lei se ne vada, le porgo le mie scuse… ma adesso è davvero un brutto momento». Dissi all’uomo con aria mortificata. Mi voltai verso Don e lui mi lanciò uno sguardo di ghiaccio, Mike si avviò verso la porta e uscì.
A un tratto venni afferrata per un braccio «Non osare mai più immischiarti negli affari che non ti riguardano!» Don mi lasciò di scatto e si avviò verso il globo bar vicino al camino. Afferrò una vecchia bottiglietta viola con la scritta “Assenzio”… L’avevo già notata il primo giorno e avevo deciso di buttarla via. Non avrei mai immaginato che Don potesse berlo.
Il silenzio regnò sovrano, non riuscivo neanche a parlargli, mi fece schifo. Mi voltai e iniziai a salire le scale, entrai in camera da letto e accesi le luci. C’era un’aria inquietante, mi sembrava quasi di sentire le pareti muoversi, mi avvicinai alla scrivania e vidi il mio portatile in modalità standby. Ero certissima di averlo spento, mi infilai comunque nel letto e chiusi gli occhi.
Giovedì 20 ottobre ore 20:30
Ricordo che ero sul letto e fissavo il soffitto, la carta da parati era marrone a macchie nere. Il letto era soffice tutto il mio corpo ci sprofondava come se fossi fatta di cemento, iniziai ad avere un fastidio agli occhi, mi bruciavano. Mi portai le mani al viso, le fissai, erano sporche di sangue. Sbandai di colpo, la mia maglia era diventata rossa mi alzai in piedi sul letto e iniziai a fissare lo specchio sulla cassettiera. Lacrimavo sangue a fiotti, non sapevo cosa fare, non riuscivo a fermarlo. Vedevo tutto rosso, il panico prese il sopravvento, a un tratto sentii una voce “Non guardare negli specchi” era di una donna, proveniva dalle pareti… scivolai sul mio sangue e caddi pesantemente sul letto, urlai.
Mi svegliai con un urlo, mi toccai di colpo gli occhi, niente. Era tutto normale. Mi guardai attorno, era buio, diedi una rapida occhiata all’Omega che avevo al polso, erano già le otto e mezza di sera! Avevo dormito tantissimo, fuori dalla finestra si vedeva la luna, era grande.
Ero ancora scossa per l’incubo, quando notai il computer acceso sulla scrivania. Mi avvicinai al monitor c’erano delle strane scritte senza senso…
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Spensi il computer e mi diressi verso il corridoio. Non facevo che pensare alla frase del mio incubo, cosa poteva mai significare?
“Specchi”, in effetti la casa ne era piena, alcuni davvero bellissimi incastonati in preziosissime cornici. L’ultimo l’avevo notato il giorno precedente in mansarda era di fronte a quello strano macchinario a forma di ruspa.
Aprii la porta che conduceva alla camera di Malcolm, era immersa nelle tenebre, sfiorai gli interruttori e di colpo si accesero tre fioche luci a intermittenza. Salii le scale cigolanti fino al buco nel muro, mi affacciai e capii subito che c’era qualcosa di strano. Dallo specchio proveniva uno strano bagliore, in un primo momento pensai che fosse dovuto da una straordinaria angolazione di luci e ombre… ma non c’erano fonti luminose in quel ripostiglio.
Mi avvicinai lentamente, le scarpe da ginnastica stregavano il vecchio parquet, iniziai a tremare… il gelo piombò nella stanza, vedevo chiaramente il mio respiro che era come una piccola nebbiolina opaca.
«No!» Urlò una voce rompendo il silenzio, «no non farlo!» Continuò facendomi accapponare la pelle. Nello specchio vidi chiaramente una donna legata alla ruspa, era vestita in abiti del primo novecento aveva la testa incastrata nel macchinario. Mi voltai di scatto verso la ruspa, non c’era niente, guardai di nuovo nello specchio la donna cercava disperatamente di divincolarsi dalla morsa ma inutilmente. Un uomo distinto vi si avvicinò, lo riconobbi era Zoltan Carnovash.
«No ti prego! Ti supplico, lasciami andare!» Disse piangendo la donna, Zoltan ne sembrava compiaciuto, si avvicinò al viso della donna e iniziò ad accarezzarlo, poi prese un fazzoletto dal taschino e lo appallottolò. «Cara Regina, tu sei stata indubbiamente la mia musa ispiratrice, sei tu che mi hai ispirato questo macchinario e spetta a te sperimentarlo!» Disse l’uomo con una smorfia malefica. «No fermati!» Esclamò la donna con tono smorzato.
Il mago afferrò una corda legata alla ruspa e iniziò a tirarla, la scatola che conteneva la testa della donna iniziò a girare lentamente, le grida di dolore erano strazianti. Zoltan ridendo infilò il fazzoletto appallottolato nella bocca della donna limitandogli il respiro e ovattandogli la voce. «Lo sai Regina, le urla non mi sono mai piaciute». Concluse ridendo isterico.
La sagoma della donna somigliava sempre di più a una marionetta che si contorceva, si sentivano chiaramente le articolazioni rompersi, la scatola stava per girare completamente di 180 gradi quando si sentì un “track”… la spina dorsale della donna si spezzò di netto perforando il collo. l’uomo prese il fazzoletto dalla testa quasi decapitata e disse «Me lo hai bagnato!»
Mi catapultai in un attimo fuori da quella stanza, durante la corsa inciampai in un tappeto e caddi pesantemente lungo tutta la rampa di scale fino ad arrivare fuori dalla mansarda, mi sentivo a pezzi, credevo di essermi rotta un braccio, ma era solo indolenzito. Mi trascinai verso una colonna nel corridoio e mi rialzai a fatica. Chiusi la porta della mansarda e scesi le scale arrivando al primo piano, la porta della camera oscura era chiusa, probabilmente Don era lì dentro.
Percorsi tutto il corridoio fino a raggiungere lo scalone che dava sull’atrio, mi accorsi però di un dettaglio, non era ancora finita.
CAPITOLO 15
Dalla mia posizione avevo una perfetta visuale del salotto, non mi piaceva molto come stanza, era angusta rispetto alle altre. Aveva dei divani in fodera viola ed era piena di aggeggi strani, come orologi e vasi di artisti a me ignoti. C’ero entrata solo una volta fino a quel momento e avevo pensato di trasformarlo in un grande guardaroba, anche perché mi era rimasto impresso lo specchio a forma ellittica che si trovava sul soffitto, l’avrei usato per le mie piccole sfilate di moda private. Comunque stavo per scendere nell’atrio quando vidi lo stesso strano bagliore nello specchio del salotto, mi tornò la tachicardia. Non sapevo cosa fare, mi tenevo saldamente alla ringhiera barocca dello scalone e rimasi a pensare per circa dieci minuti. Ancora oggi non so dove trovai il coraggio, ma a piccoli passi mi ritrovai brevemente nella stanza. Iniziai a rivedere il mio respiro, il camino era acceso ma mi sembrava di stare in una cella frigorifera, arrivai fino al centro della camera fissando il soffitto. Vedevo uno strano tavolo nello specchio, un tavolo che nella realtà non c’era. Aveva cinghie e uno strano imbuto metallico su un lato, d’un tratto si materializzò su di esso una donna, era robusta aveva i polsi legati e l’imbuto conficcato in bocca. Si sentiva chiaramente il suo respiro, l’imbuto amplificava tutti i suoi minimi gemiti. Sopraggiunse dopo pochi istanti Zoltan, aveva un vassoio d’argento in mano, su di esso c’era un coperchio con la lettera “C” incisa. «Sei fortunata Victoria oggi ho preparato tutti i tuoi piatti preferiti». Disse avvicinandosi alla donna terrorizzata.
«Puoi fidarti, mio padre era cuoco a Parigi». Continuò lui con aria cupa.
Zoltan sollevò il coperchio e lo lasciò cadere a terra, sul vassoio c’erano delle viscere insanguinate, non riuscivo a capire di che genere fossero. L’uomo con dei guanti neri sollevò un pezzo filante di interiora e lo lasciò cadere nell’imbuto «La prima portata sono interiora in salsa alla Auxerre». La donna emise un grido muto e subito dopo tacque, quelle viscere iniziarono a soffocarla, Zoltan prese una sorta di manganello e lo inserì nell’imbuto per far scendere tutto nell’esofago più in fretta.
Mi salì di colpo la nausea, barcollai cadendo sul pavimento, lanciai un’occhiata al soffitto e vidi il folle prendere un altro pezzo più grosso dal vassoio, dopo pochi istanti lo lasciò scivolare nell’imbuto. «Cervella strapazzate!» Esclamò a Victoria continuando a mescolare col manganello. La donna inghiottì tutto e dopo alcuni spasmi muscolari si lasciò andare. I suoi occhi erano completamente iniettati di sangue, era morta. «Sai Victoria ho pensato che con una cena appropriata avresti potuto conoscere mia figlia Daiana, ti è piaciuta?»
Indietreggiai lentamente e uscii dalla stanza.
Mi avviai a passo moderato giù nell’atrio finché la porta d’ingresso si spalancò, una figura comparve sulla soglia, era Cyrus.
«Signora, la mamma la aspetta…» disse il ragazzo venendo verso di me con passo svelto.
«Di cosa parli?» Gli chiesi indietreggiando. «La mamma ha una sorpresa per lei, la aspettiamo nel fienile!» Dopo due secondi si catapultò fuori sbattendo la porta alle sue spalle.
Mi avviai verso la sala da pranzo ed entrai in cucina, mi pulii le labbra con dell’acqua fresca e mi asciugai con uno straccio, chiusi i rubinetti e tornai in sala da pranzo. C’era un enorme specchio rettangolare che prendeva tutta la parete, sbandai quando vidi una donna seduta a una sedia. Sul tavolo c’era un bicchiere di cristallo e una bottiglia di vino rosso, la donna beveva a lunghi sorsi fin quando arrivò Zoltan.
«Amore… questo vino è buonissimo!» Esclamò la donna con aria decisamente brilla, l’uomo vi si avvicinò e iniziò a toccarle brutalmente i capelli. La donna si liberò dalla sua presa e con uno scattò gli buttò il vino in faccia «Ecco questo a te!» Disse lei barcollando per l’alcool. Zoltan le afferrò la testa e la fracassò sulla tavola… Quando la sollevò si vedeva chiaramente la bottiglia incastonata in una cavità oculare. «Questo a te Leonora!» Disse lui gettando il corpo a terra.
Feci un passo indietro quando mi accorsi che il pavimento era bagnato, c’era sangue, molto sangue, mi voltai verso la cucina e vidi una lunga scia arrivare fino alla porta della dispensa. Le lampadine iniziarono a fare intermittenza, a un tratto la porta della dispensa si aprì. La botola era aperta, c’era un uomo che scendeva le scale con un cadavere in braccio. «Starai benissimo nel barile con il tuo amato vino!» Esclamò l’uomo continuando a scendere nella cantina.
Mi tornò un senso di vomito era per caso lo stesso barile di vino che assaggiai quando scesi in cantina?
Dopo pochi istanti la luce tornò alla normalità, il sangue era sparito, nello specchio non vidi più nulla di insolito, iniziai a capire che qualcuno o qualcosa voleva mostrarmi gli scempi successi in quella casa, ma come era possibile tutto questo? Perché Zoltan uccise tutte le sue mogli? E perché Malcolm fu l’unico superstite di quella razzia?
Mi diressi nell’atrio e mi avvicinai alla macchina che prediceva il futuro, inserii un gettone. Le musiche erano molto più accattivanti… gli occhi della zingara si illuminarono di verde e rosso, dopo alcuni istanti usci il biglietto. “Ti stiamo osservando. Non sei sola.” Non avrei mai immaginato che sarei arrivata al punto di prendere quelle cose sul serio.
Arrivai sulla soglia del fienile, era una bellissima serata, non tirava un filo di vento e la luna fungeva da grosso lampione. Mi affacciai all’interno e vidi degli strani addobbi rossi e dei lumi sparsi sul pavimento.
C’era un piccolo tavolino di legno al centro della stanza e degli sgabelli arrangiati con delle cassette. Comparve Harriette aveva uno strano scialle colorato e una sorta di turbante decisamente ridicolo, Cyrus era dietro di lei e le sistemava il vestito. «Mamma è arrivata!» Esclamò il giovane fissandomi. «Oh! Benvenuta! Prego si accomodi, faccia come se stesse a casa sua!» Disse Harriette con un tono ironico sventolando lo scialle. Mi fece accomodare su una delle cassette e tirò fuori un mazzo di carte dalla tasca. «Cosa sono?» Le chiesi incuriosita.
«Tarocchi… mi sembrava di averglielo detto che sono una chiaroveggente». Affermò con audacia. In circostanze diverse me ne sarei andata ridendo, ma dopo tutto quello a cui avevo assistito decisi di rimanere, anche perché i due erano fondamentalmente comici e avevo l’impressione che tutto si sarebbe rivelato divertente.
«Oh spiriti dell’aldilà venite a conferirci i vostri segreti e le vostre perplessità!» Esclamò Harriette mentre spintonava Cyrus per non farlo distrarre. In un attimo mi fu suscitata una risata, ma riuscii a trattenermi. Solo cinque minuti dopo mi accorsi che il peggio stava arrivando… Harriette continuava con le sue ridicole frasi, ma francamente quelle assurdità non avrebbero mai richiamato l’attenzione degli spiriti, forse solo quella di una folla inferocita.
A un tratto un brivido percorse la mia schiena, mi voltai verso la porta non c’era niente. I lumi si spensero tutti in sequenza, Harriette si pietrificò. Non si muoveva, non diceva neanche una parola, Cyrus si spaventò e sbandando cadde all’indietro accartocciandosi nelle cassette di legno accantonate. Io balzai in piedi e dissi «Harriette?! Tutto ok?» Non ebbi risposta, dalla bocca della donna iniziò a fuoriuscire un liquido verde smeraldo che colava sul tavolo. Indietreggiai di colpo e iniziai a pensare che quella strana seduta spiritica avesse funzionato.
CAPITOLO 16
«Harriette?!» Urlai sconvolta.
Gli occhi della donna erano completamente neri, le mani erano chine sul tavolo e dalla bocca continuava a fuoriuscire quella melma verdastra. Iniziai a pensare che mi stessero facendo uno scherzo, ma era troppo sofisticato per una coppia di barboni disperati.
La melma iniziò a muoversi lungo il tavolo assumendo la forma di un volto, riuscii a distinguere chiaramente un naso e due infossature che sembravano occhi.
«Il mio nome è Zoltan Carnovash». Disse il volto sul tavolo.
Speravo che si trattasse di un altro dei miei incubi, ma purtroppo era la realtà.
«Ho aperto a Satana le porte della mia anima e ora sarò dannato per l’eternità… amavo mia moglie e i miei figli, Il demonio li ha portati via dalla luce succhiando le loro anime, vorrei poter tornare indietro».
Quella voce era tremante e strozzata, avevo l’impressione di ascoltare una persona in punto di morte. L’istinto mi diceva di scappare, ma per andare dove? Mi feci coraggio e gli chiesi «Cosa vuoi da me?» Di colpo il volto assunse una smorfia di dolore.
«Devi fermare la bestia prima che sia troppo tardi… Il dragone ti indicherà la strada…» disse quella voce con fatica. Subito dopo si iniziò a dissolvere riducendosi lentamente in un atomo.
Avevo appena parlato con un defunto, non è una cosa che capita tutti i giorni. Mi avvicinai a Harriette e le toccai una spalla, la donna si riprese di colpo. «Cos’è successo?» Chiese assonnata.
«Harriette ha funzionato!» Esclamai sorridendole.
«Dice sul serio?… Non lo dice per farmi piacere vero?» Continuò la donna contentissima ed esuberante. Le annuii, poi si tolse lo scialle e si diresse come una furia verso Cyrus che era coricato a terra. «Hai visto figlio mio? Ce l’ho fatta!» Esclamò gioiosa.
Continuò per circa dieci minuti a saltellare per tutto il fienile ripetendo sempre lo stesso ritornello, dopo poco mi congedai e rientrai in casa.
Nell’atrio c’era una strana puzza di muffa, non l’avevo mai notata prima. Ripensai per un attimo alle parole che mi furono dette nel fienile, riguardavano un dragone. Mi avvicinai alla grande porta verde con sopra inciso il drago, ma era ancora ermeticamente chiusa. Iniziai a scuoterla senza risultati, la esaminai accuratamente in ogni sua parte e giunsi alla conclusione che era chiusa a bloccata dall’interno. Gettai la spugna e mi diressi ai piani superiori, passando per il primo piano vidi uno spiraglio di luce uscire dalle fenditure della camera oscura, Don era ancora lì dentro. Di fronte alla stanza c’era una camera da letto, era tutta arredata in velluto rosso con tappeti persiani e letto a baldacchino. Sul camino c’era un quadro di Zoltan e subito dopo un altro quadro con una giovane donna bionda… era probabilmente Marie.
Iniziai a trafugare i cassetti, svuotai gli armadi e iniziai a spostare i mobili, l’unica cosa che trovai fu un pezzetto di carta con su scritto:
“Per Gaston vediamoci alla serra. Marie”
Mi sembrava un po’ poco come indizio, poi ebbi una folgorazione c’era una strana lampada verde fatta di vetro. Sulla lampadina c’era disegnato un drago. La accesi, un raggio di luce fu proiettato contro una parete vuota, capii che si trattava di un rudimentale proiettore. Mi avvicinai alla parete in questione ed esaminai la carta da parati, nel punto colpito dalla luce c’era un’infossatura. Schiacciai col pollice e sentii un “click” con mio stupore il muro si aprì. Un pannello di legno quadrato nascondeva un passaggio segreto, era perfettamente mimetizzato… nessuno l’avrebbe mai scoperto.
Entrai nel passaggio e mi guardai intorno, era un piccolo corridoio che passava tra una camera e l’altra, proseguiva per diversi metri. Era decisamente buio lì dentro e riuscivo solo a distinguere il pavimento dal soffitto, visto dall’interno comunque risultava molto semplice e ingegnoso aprire i passaggi segreti, c’era una specie di leva di legno situata in corrispondenza di una carrucola che faceva salire i pannelli, questi non essendo nascosti erano facilmente localizzabili. Chiusi con la leva il passaggio e mi addentrai nel suo cuore, trovai uno strano tipo di ascensore di legno che poteva salire e scendere, nella cabina c’era una manopola rotonda che andava continuamente girata per poterlo utilizzare. Entrai nella cabina e con tutte le mie energie girai la manopola, l’ascensore iniziò a scendere lentamente… si fermò di colpo non appena toccò il suolo del piano terra, qui il passaggio si divideva in tre diramazioni, una di queste era composta da un passaggio di pietra che conduceva a una scalinata che scendeva per circa dieci metri. Purtroppo non potetti percorrerla tutta perché si interrompeva bruscamente con un crepaccio largo circa due metri e mezzo e in posizione di discesa, era impossibile saltarlo. Ripresi i miei passi con la seconda diramazione, arrivai fino a una leva di legno marcio. La tirai e si alzò un pannello, mi affacciai e mi ritrovai nella cappella dietro alla libreria, richiusi il pannello e proseguii per parecchi metri era ormai diventato un sentiero sotterraneo, non esagero se dico di aver camminato per diversi minuti fino a quando non raggiunsi una specie di cripta. Capii che mi trovavo in corrispondenza del cimitero che stava in giardino, incredibile ma vero ero sotto le tombe della famiglia Carnovash.
Faceva molto freddo lì giù e una delle mie fortune fu che non mi spaventano i topi visto che ce ne erano davvero molti. Una qualsiasi delle mie amiche sarebbe saltata su un cactus pur di non averci nulla a che fare. La luce filtrava dal soffitto mediante alcuni canali di scolo, mi sembrava di girare per le fogne, quando poi ebbi un’idea. Mi trovavo nel posto giusto al momento giusto, visto che il cadavere della prima moglie di Zoltan lo trovai in un vaso fuori in giardino, e visto che le altre mogli sono state tutte uccise in casa, cosa c’era nelle loro tombe?
Alcuni istanti dopo capii tutto.
CAPITOLO 17
Sulle pareti c’erano dei crocifissi di pietra molto antichi, era il posto più lugubre che io avessi mai visto. Le ragnatele avevano creato una perfetta carta da parati naturale che a vederle mi suscitarono i ricordi delle feste di Halloween a casa dei miei da piccola, ma quelle erano spray ovviamente.
Dietro un angolo c’era una colonna corinzia con un grosso capitello di pietra lavica, era in bilico, sarebbe bastato un niente per farlo cadere.
Mi avvicinai a una tomba di marmo, c’era incisa la lettera “C” e la lettera “H”. Iniziai a spingere il coperchio di pietra con tutte le mie forze. Personalmente mi disgustano i profanatori di tombe, ma in quel caso specifico sapevo di non trovare cadaveri. Dopo alcuni istanti il coperchio si mosse e cadde pesantemente a terra riducendosi in mille pezzi, una nube di polvere si sollevò impedendomi di vedere a un centimetro dai miei occhi. Iniziai a respirare a fatica cercando di smuovere l’aria con le braccia, dopo una decina di secondi riuscii a mettere a fuoco, mi avvicinai alla tomba e sbirciai all’interno.
Era incredibile, ma al suo interno c’era un vecchio manichino per costumi di scena, aveva braccia e gambe di legno. La testa era ellittica decisamente inquietante, lo esaminai più da vicino.
Il manichino era in parte marcio, ma non aveva niente di strano. Usai lo stesso sistema per aprire le altre tombe con le lettere “V”, “L”, “R” e in tutte trovai quegli orribili mostri senza vita.
Mi inoltrai di qualche altro passo e vidi una tomba con la lettera “M”… “Marie” pensai. Mi avvicinai e iniziai a spintonare il coperchio, non ci volle molto per farlo cadere.
Mi affacciai e mi bloccai di colpo, era proprio il suo cadavere, ma perché solo Marie riposava nella sua tomba?
La donna in parte mummificata stringeva in grembo un piccolo crocifisso d’argento.
Tornai indietro percorrendo tutto il passaggio a ritroso fino ad arrivare all’ascensore di legno, prima di uscire decisi di imboccare la terza diramazione a me ancora ignota. Dopo pochi metri trovai la solita leva di legno con la carrucola, la tirai e si aprì un pannello.
So solo che non mi sarei mai immaginata nulla di simile.
CAPITOLO 18
Era un teatro.
C’era un teatro in casa mia e io ne ero completamente inconsapevole, era una camera un po’ più piccola dell’atrio con degli enormi pannelli dorati che salivano fino al soffitto, completamente ricoperta di panneggi rossi e blu. In platea c’erano circa un centinaio di poltrone sempre in velluto rosso e un bellissimo tappeto che dalla gigantesca porta col dragone verde arrivava fino al palco che era in parquet chiarissimo.
Improvvisamente mi paralizzai, non credevo ai miei occhi, sul palco c’era la sedia del mio incubo, quella bianca con l’ascia a pendolo. Rabbrividii per alcuni istanti e iniziai a sudare freddo, dietro alla sedia c’era un enorme sipario porpora con una piccola porta nera.
Salii sul palco ed esaminai la sedia, sui guanciali c’erano delle morse d’acciaio che andavano bloccate con dei bulloni, anche sulle gambe c’erano… probabilmente servivano a immobilizzare completamente il mago durante la sua esibizione. Per il resto la sedia si sviluppava in altezza con un gigantesco ingranaggio che faceva oscillare un’ascia come il pendolo di un orologio e a ogni oscillazione scendeva di qualche centimetro costringendo il prestigiatore a una corsa contro il tempo, per evitare di essere colpito in pieno. In cima a una trave della sedia c’era una leva argentata, probabilmente azionava l’ascia nella sua incombente discesa.
Mi lasciai la sedia alle spalle e mi diressi verso la porta nera che dava probabilmente dietro alle quinte.
Ne rimasi delusa, c’era solo una postazione con uno specchio, un gigantesco lampadario di cristalli che illuminava come un sole tutto l’ambiente e una poltrona, un po’ più avanti si intravedeva un armadio a muro molto largo e profondo con i piedi alti e alcuni manichini di scena. Iniziai a curiosare nei cassetti della postazione, c’erano dei cosmetici e alcuni ritagli di giornale dell’epoca. Uno mi colpì particolarmente:
“Il Phantasmagoria show di Zoltan Carnovash è riuscito ancora una volta a scioccare l’intero pubblico del teatro egizio di Londra. La sua sedia della morte è riuscita a fargli guadagnare il primo posto nell’arena dei maghi del nuovo millennio.
Londra 17 maggio 1942”
Poi ne vidi un altro decisamente più promettente:
“Zoltan Carnovash riversa in coma dopo l’orribile incidente che ha subito durante il suo ultimo show nella sua villa a Home. Sua moglie Marie ha dichiarato che questa orribile tragedia lascerà un segno tangibile nella sua vita e spera che tutto possa risolversi per il meglio.”
Richiusi i cassetti e mi diressi verso l’armadio di frassino, lo aprii. C’erano dei costumi di scena, un mantello di organza nera con fodera rossa, un cilindro in faille e un bastone nero con una lama affilatissima e con l’impugnatura a forma di teschio.
Tirai fuori i costumi e trovai sotto a tre centimetri di polvere una foto incorniciata, pulii il vetro con le dita e mi apprestai a esaminarla.
C’era un bambino seduto su una sedia e in piedi accanto a lui c’era Zoltan, ricordo solo che emisi un urlo e che di colpo la lasciai cadere facendola ruzzolare sotto all’armadio.
Non poteva essere stata un’allucinazione, in quella foto vidi chiaramente il viso di Zoltan Carnovash trasformarsi in un mostro. Mi abbassai e infilai il braccio sotto l’armadio, sfioravo la cornice con le dita… non riuscivo a raggiungerla.
D’un tratto il lampadario di cristallo precipitò distruggendosi, piombò il buio, mi girai in una frazione di secondo quando qualcosa mi afferrò il braccio e mi trascino sotto l’armadio. Urlai.
CAPITOLO 19
Le mie grida risuonarono perfettamente con l’acustica della sala, cercai di liberare il braccio facendo leva contro l’armadio con una gamba. Dopo poco caddi all’indietro, di qualunque cosa si trattasse mi aveva lasciata, non capivo come ma in mano mi ritrovai la foto… Balzai in piedi e mi diressi a passo svelto verso la platea, camminando girai la cornice c’era scritto: “Malcolm e Zoltan 1947” quel bambino quindi era Malcolm.
Arrivai in prossimità del passaggio nel muro ma lo trovai chiuso, esaminai la parete con perizia, ma non c’era nessuno tasto nascosto. Evidentemente questo passaggio poteva essere aperto solo dall’interno, mi diressi verso la porta col dragone, girai la grossa maniglia. La serratura scattò, la porta si aprì, era la porta più pesante che io avessi mai visto, ci misi qualche secondo per aprirla completamente, mi ritrovai come già avevo previsto nell’atrio.
Tutto il mosaico si stava componendo sotto i miei occhi, ma mi mancavano ancora dei tasselli importanti, ma la cosa che mi preoccupava maggiormente era Don, cosa gli stava capitando? Perché questo brusco cambiamento di personalità?
La stanchezza iniziava a farsi sentire, mi diressi in cucina per bere un bicchiere d’acqua quando d’un tratto vidi due ombre furtive camminare in giardino, uscii dalla porta secondaria e corsi in direzione delle due sagome, erano Harriette e Cyrus… Avevano due sacchi sulle spalle.
«Harriette, cosa sta succedendo?» Le chiesi con un po’ d’affanno.
«Mmm… signora, a dir la verità non volevo parlarvene, ma ho avuto una discussione con suo marito poco fa». Mi disse mortificata.
«Di cosa sta parlando?» Continuai io stringendomi per il freddo.
«Eravamo nel fienile a mettere un po’ in ordine quando è arrivato come una furia e ci ha minacciati, non se la prenda a male, ma non ce la sentiamo di rimanere». Mi spiegò con un po’ d’ansia.
«Non posso crederci… » le risposi. «Non si preoccupi Harriette ora gli parlerò io e sistemerò la faccenda». Le dissi tentando di tranquillizzarla.
«Mi dispiace, ma negli occhi di suo marito ho visto la cattiveria… Non possiamo restare». La donna diede un colpo al figlio che si stava distraendo con un gatto e lo invitò a seguirla, si stavano dirigendo verso il fienile. Mi sentii improvvisamente in colpa, come se fossi stata io a sbagliare.
Rientrai in casa e mi diressi verso la cucina, aprii il frigorifero e presi un succo, mi sedetti al tavolo e iniziai a pensare a tutta questa situazione, finché un bagliore familiare attirò la mia attenzione. Mi alzai e mi avvicinai alla soglia della sala da pranzo. Nello specchio si stava costruendo un’immagine, vidi chiaramente Harriette morta, era a terra completamente ricoperta di sangue. Balzai di colpo facendo cadere il bicchiere a terra, la visione scomparve. Spalancai la porta e corsi verso il fienile «Harriette!» Urlai a squarciagola. Il fienile era vuoto se ne erano già andati, la tenuta era decisamente lontana dalla città, quindi decisi di prendere la macchina per risparmiare loro almeno i sei chilometri a piedi ero sicura che li avrei raggiunti in un baleno.
Mi rovistai le tasche, non trovavo le chiavi dell’auto. Le avevo probabilmente lasciate nell’atrio su un mobile adiacente all’ingresso principale. Rientrai in casa di corsa e mi paralizzai quando vidi…
CAPITOLO 20
…Don disteso a terra accanto al camino, nella sua mano destra aveva la bottiglia di assenzio, mi apprestai a soccorrerlo.
«Don cos’hai?» Gli chiesi facendolo stendere sul divano.
«Adrienne…» disse in uno stato comatoso «Adrienne tesoro… perché non…» continuò lui sforzandosi a parlare.
«Cosa Don? Non capisco», gli chiesi premurosa.
«Perché non ti fotti lontano da qui?!» Disse lui ridendo pesantemente, mi allontanai da lui indignata e mi avviai verso le scale.
«Vado a dormire», gli dissi fissandolo inerme sul pavimento.
Venerdì 21 ottobre ore 9:20
Mi è sempre piaciuto spazzolarmi i capelli, ricordo che da piccola mia madre me li spazzolava per ore fino a quando il suo braccio non fosse stato troppo stanco per continuare.
Ero in bagno e mi prendevo cura della mia chioma, non facevo che pensare a quanto le cose fossero peggiorate da quando eravamo andati a vivere lì, credevamo di coronare un sogno e invece ci eravamo ritrovati in un incubo.
Uscii dal bagno e mi diressi al piano di sotto, la camera oscura era chiusa. Mi avvicinai alla porta e bussai. «Don sei lì?» Chiesi senza avere risposta, afferrai la maniglia e provai ad aprire, niente.
Sbirciai dalla serratura, era completamente buio, cosa c’era di così segreto in quella stanza? Perché Don la teneva sempre sotto chiave?
Percorsi tutto il corridoio fino ad arrivare allo scalone, scesi al piano di sotto e mi avvicinai al divanetto, Don era steso a pancia all’aria, i suoi capelli erano sporchi, russava e il suo alito era impregnato di alcool.
Mi avvicinai al globo bar e raccolsi la bottiglia di assenzio, era vuota, iniziai a fissare Don… I suoi occhi si spalancarono, mi fissavano. Feci un passo indietro per lo spavento, lui ingranò lo sguardo e disse «Adrienne… che cazzo fai?» Stavo pensando a cosa rispondergli, quando a un tratto bussarono alla porta, Don si alzò dal divano mantenendosi la testa e si diresse barcollante fino all’ingresso. Con uno scatto spalancò la porta, sulla soglia apparve Mike.
«Ancora qui?!» Esclamò Don. «Sono qui solo per finire il lavoro…» disse Mike con la cassetta degli attrezzi in mano.
«D’accordo, fai quello che devi fare e poi vattene!» Don lo scrutò brevemente, gli diede le spalle e se ne andò al piano di sopra.
Mi avvicinai a Mike e lo invitai a entrare. «Mi scuso ancora per il comportamento di mio marito, ma ultimamente abbiamo qualche problema e credo che non sia in sé…», gli dissi cercando di sdrammatizzare.
«Non si preoccupi, capisco la situazione. Molti mariti sono preoccupati quando mi vedono piombare in casa propria», affermò l’uomo con un sorriso. Sinceramente trovavo quel suo umorismo un po’ fuori luogo, ma mi faceva piacere che non se la fosse presa.
Mike si riavvicinò alla parete dove stava lavorando in precedenza, e iniziò ad armeggiare con delle pinze.
Avevo voglia di un caffè, ma prima di entrare in cucina mi diressi verso la macchina del futuro, inserii un gettone e assistetti al solito show di lampadine colorate. Il manichino della zingara mi ricordò per un attimo quelli che trovai nella cripta, un altro brivido percorse la mia schiena, il corpo si muoveva avanti e indietro fino a quando non fuoriuscì un biglietto, lo raccolsi… la mia pelle si accapponò. “Il male è qui, cerca di salvarti.”
Ricordo che iniziai a pensare di smontarla per leggere tutti i bigliettini che conteneva, ma anche se può sembrare impossibile era composta da un unico blocco indivisibile… ancora oggi mi chiedo come abbiano fatto ad assemblarla.
Andai in cucina e aprii il frigo, era vuoto. Entrai in dispensa per prendere il caffè, ma sugli scaffali non c’era niente, non capivo come potesse essere possibile… Inizialmente i miei sospetti caddero su Cyrus e Harriette, perché prima che se ne andassero li vidi con dei grossi sacchi, ma poi pensai che non potessero essere tipi da fare questo genere di cose. Avrei potuto chiedere informazioni a Don, ma non mi sembrava proprio il caso.
Non trovavo più la foto di Malcolm, l’avevo probabilmente lasciata in teatro, non so per quale motivo ma quella fotografia mi interessava molto. Avevo un’idea in mente e speravo di riuscire a realizzarla.
Attraversai la porta col dragone e mi avvicinai al palcoscenico, in terra c’era la foto, la raccolsi e mi voltai per un attimo verso la tetra sedia bianca con l’ascia, gelai. Avvertii degli scricchiolii, provenivano dall’alto.
Salii sul palco e mi diressi verso la sedia, era un rumore meccanico, simile a quello della carrucola nei passaggi segreti.
Dopo l’avventura con l’armadio decisi di muovermi lentamente, ero praticamente alle spalle della sedia, quando un rumore dal soffitto attirò la mia attenzione. Con uno scatto guardai in alto… Gridai a squarciagola.
CAPITOLO 21
Il sipario precipitò vorticosamente colpendomi in pieno, cercavo ansimante una via di fuga sotto le tonnellate di metri di velluto che mi soffocavano. Mi trascinai in una direzione facendomi largo con le braccia, iniziai a pensare che non ne sarei mai uscita. Dopo qualche secondo intravidi la luce, annaspai un po’ d’aria fresca e lasciai cadere il sipario alle mie spalle. Ero completamente ricoperta di polvere, i miei capelli biondi erano diventati grigi… Probabilmente non veniva lavato da minimo cent’anni.
Cercai di scrollarmi la polvere di dosso, poi gettai un’occhiata alla parete che era precedentemente ricoperta dal sipario, c’erano uno strano apparecchio di metallo alto circa un metro e mezzo. Sopra c’era una locandina con un corpo di una donna in abito da sera e la scritta “Phantasmagoria” in grande, in alto c’era un’infossatura larga una decina di centimetri e su un lato c’era una manovella girevole. Lo esaminai da vicino, era praticamente un rudimentale proiettore dei primi anni quaranta, guardai nell’infossatura e iniziai a girare la manovella.
Iniziò a scorrere un filmato in bianco e nero muto.
Si vedeva un uomo magro vestito di nero che gesticolava sul palco, aveva dei grossi baffi e un cappello nero. Dopo alcuni fotogrammi apparve una didascalia: “Signori e signore benvenuti al Phantasmagoria show di Zoltan Carnovash!”
Un istante dopo riapparve l’uomo, che dedussi essere una sorta di presentatore, continuava a gesticolare rivolgendosi probabilmente alla platea del teatro, si avvicinò al sipario e tirò una corda, quest’ultimo si aprì. Subito dopo apparve un’altra didascalia: “Questa sera assisterete al più terrificante spettacolo di magia di tutti i tempi!”
Avvertii un fremito, il marchingegno tremò per un istante e di colpo il filmato divenne a colori, le didascalie sparirono… sobbalzai, era incredibile ma riuscivo a sentire le voci.
Nel filmato si vedeva chiaramente la sedia bianca alle spalle del presentatore, quest’ultimo iniziò a indicare con un braccio la porta nera che era sul palco e disse: «Ecco a voi il grande Zoltan!» Esclamò con un coro di applausi al seguito. Dalla porta sbucò una sagoma nera, era Zoltan, aveva un cilindro nero e un mantello con una fodera rosso fuoco, alle sue spalle apparve una donna con degli abiti scarlatti dell’inizio novecento. Era probabilmente Marie, il presentatore si porse in un angolo facendo spazio ai padroni di casa. I due furono accolti con una moltitudine di applausi, l’uomo si sedette sulla sedia e posizionò braccia e gambe in corrispondenza dei guanciali. Marie si chinò verso di lui e iniziò a fissargli le gambe con dei ganci d’acciaio, poi toccò ai polsi, dopo poco l’uomo era completamente immobilizzato. La donna prese da dietro alla sedia un cappuccio nero e lo infilò al marito, poi sparì per qualche secondo dal palco e riapparve con una torcia infuocata nella mano destra. Si avvicinò a Zoltan e fece prendere fuoco al cappuccio che era probabilmente impregnato d’alcool, subito dopo abbassò la leva argentata.
La sedia iniziò a girare su se stessa molto lentamente, l’ingranaggio alla sua sommità iniziò a scattare, l’ascia si liberò dalla sua morsa e iniziò a scendere rapidamente. Vidi il mago dimenarsi, probabilmente doveva sorprendere tutti riuscendo a liberarsi, l’ascia non frenava la sua corsa, era sempre più veloce e produceva un rumore che faceva accapponare la pelle. La platea era ammutolita e si sentivano delle frasi isteriche, l’ascia scendeva sempre più rapidamente, era a pochi centimetri dalla sua testa. Il filmato tornò in bianco e nero, l’ascia scendeva ancora di più e stava per colpire l’uomo in pieno, era a un millimetro dalla sua fronte… Di colpo il filmato si interruppe, delle scintille fuoriuscirono dal retro. Indietreggiai di qualche passo, la locandina iniziò ad accartocciarsi lentamente su se stessa. Stava andando a fuoco.
Corsi nell’atrio e presi il vaso con le rose che era sul pianoforte, tornai in teatro e rovesciai il suo contenuto sul proiettore, l’incendio si spense. Il proiettore però era inutilizzabile, sulla locandina si leggevano solo le lettere “Ph” tutto il resto era illeggibile.
Avevo ormai le idee chiare sulla mia prossima mossa, per capire quello che era successo in quella casa e per avere finalmente tutte le risposte c’era solo una cosa che io potessi fare.
CAPITOLO 22
Dovevo parlare con Malcolm.
Presi le chiavi della macchina e mi diressi verso l’uscita, iniziai a provare un discorso nei miei pensieri per riuscire a convincere Lou a permettermi di incontrare suo padre. Poi ebbi un’ispirazione, la foto. Avrei usato la foto come scusa, ero sicura che sarei riuscita nel mio obiettivo e sapevo che ormai ero alla fine di questo complicato mistero.
Arrivai con l’auto a pochi metri dal negozio d’antiquariato, dalle vetrine intravedevo Lou con un cliente, entrai stringendo fra le mani la foto e mi diressi verso la donna, quest’ultima mi guardò e mi sorrise.
«Salve Adrienne», disse lei con uno sguardo socievole.
«Buon giorno Lou, mi dispiace disturbarla ancora, ma avrei urgente bisogno di vedere suo padre… mi creda è veramente importante». Le dissi porgendole la foto, la donna mi guardò con un’espressione di meraviglia poi allungò il braccio e afferrò la cornice. Scrutò l’immagine e dopo pochi secondi mi guardò dicendo «Mio padre ha sofferto molto per colpa di quest’uomo, non posso permetterle di infastidirlo solo perché lei deve trovare nuovi materiali per i suoi romanzi».
Durante il suo discorso cercai più volte di intervenire con frasi di circostanza, ma riusciva sempre a zittirmi… Approfittai di un suo attimo di silenzio per continuare la mia opera di convincimento, dicendole «Mi ascolti, ora non si tratta più del romanzo, è che durante la mia permanenza in quella casa sono successe molte cose strane, cose che mi hanno decisamente provata e credo che suo padre possa aiutarmi a capire il perché di quelle situazioni… Inoltre ho paura che l’atmosfera di quel posto abbia turbato in qualche modo il benessere mentale di mio marito Donald e sinceramente suo padre è la mia ultima speranza per risolvere la situazione».
Lou mi guardò incredula, poi voltandosi si avvicinò all’orologio a pendolo e iniziò a fissare le lancette.
«Quando mia madre morì mio padre non versò una lacrima, è sempre stato dotato di un carattere molto forte e sono sicura che l’abbia amata con tutta l’anima… Ma un giorno sette anni fa un uomo venne a fargli delle domande in merito alla vita di Zoltan Carnovash, mio padre ebbe una crisi depressiva e pianse per diversi giorni. Qualunque cosa gli sia capitata, è ancora in grado di farlo soffrire, in ogni caso ho deciso di aiutarla. Oggi pomeriggio parlerò con mio padre e gli spiegherò la situazione, se lo riterrà opportuno e se le energie gli saranno favorevoli farò in modo che v’incontriate».
«Questo sarebbe davvero molto importante per me», le dissi con tono amichevole. Lou mi guardò e protese la foto verso di me, la guardai per un attimo e le dissi «No, la dia a suo padre… Questo è il suo passato non il mio». La donna poggiò la cornice su un tavolino a tre gambe poi prese un pezzo di carta e vi scrisse qualcosa, subito dopo si mosse verso di me e mi strinse la mano porgendomi il foglietto..
«Arrivederci Adrienne… Passi a casa mia oggi pomeriggio verso le sei, se mio padre accetterà di incontrarla potrà vederlo… qui c’è scritto l’indirizzo». Le sorrisi e mi avviai verso l’uscita, mancava ancora molto per le sei e francamente non mi andava di tornare a casa, decisi di andare a fare un giro in città, ma se avessi saputo quello che stava per succedermi me ne sarei andata di corsa.
CAPITOLO 23
Entrai in macchina e mi diressi verso il centro della piccola cittadina, in definitiva Home si sviluppava in larghezza su alcune cunette simili a isolotti che puntavano sull’oceano pacifico, è definita da molti la Venezia americana.
Dei piccoli ponti di legno e cemento univano il tutto e davano un tocco d’eleganza a quel piccolo agglomerato di case e villette a schiera.
Parcheggiai in prossimità della chiesa che padroneggiava su una piccola piazza, scesi dall’auto e mi diressi verso il centro. Improvvisamente notai qualcosa di strano, tutti i presenti in piazza guardavano nella mia direzione e parlavano tra di loro con un atteggiamento di stupore e isterismo.
Mi scrollai gli sguardi di dosso e mi diressi verso l’entrata della chiesa, c’era una grossa porta di legno e ferro che padroneggiava sul tutto. L’edificio era strano, sembrava quasi assurdo ma non rispecchiava nessuno stile artistico che io conoscessi. Afferrai la maniglia ed entrai.
Le navate si disperdevano in un poderoso e al tempo stesso complicatissimo intreccio di colonne e archi.
C’era poca luce, e delle finte candele illuminavano quadri e statue, guardai avanti a me e vidi chiaramente il crocifisso. Una sagoma era chinata su di esso, mi avvicinai di qualche passo, la sagoma lentamente si voltò nella mia direzione… sembrava essere un prete. Era pallido con delle grosse occhiaie e folti baffi bianchi, iniziò a fissarmi con un’espressione di ripugno poi disse «Come osa entrare nella casa di Dio?»
La situazione mi sembrò da subito imbarazzante e francamente non sapevo proprio cosa rispondergli, mi limitai a guardarlo con occhi sconvolti e con un filo di voce riuscii solo a pronunciare «prego?»
Il prete avanzò rapidamente nella mia direzione, si reggeva su un lucidissimo bastone nero, sentivo il suo affanno che cresceva verso di me.
«Ha aperto le porte!» Esclamò sconcertato a un metro da me. «Non so di cosa lei stia parlando», gli dissi ingranando lo sguardo.
«Ha aperto le porte a Satana, ora lui è carne, lui vive… È qui!» Continuò fissandomi. Nelle sue parole avvertivo una nota di paura, ma al tempo stesso iniziai a dargli un qualche genere di peso. «Di cosa parla?» Gli chiesi con una certa agitazione, l’uomo mi fissò un altro istante poi si voltò e si diresse verso il crocefisso. «Spero che Dio riesca a perdonarti figliola, pregherò per te…»
Il prete sparì in una porta, non riuscivo a credere a ciò che era successo… In circostanze diverse l’avrei semplicemente etichettato come un pazzo, ma dopo tutto quello che mi era capitato in quei giorni non sapevo proprio più a che pensare.
Una cosa era chiara, dovevo andarmene da quel posto, diedi le spalle all’altare e mi diressi verso l’uscita. I miei passi riecheggiavano nell’aria, afferrai la maniglia della porta e spinsi, diedi uno sguardo alla piazza… le persone erano sparite, non c’era anima viva, tutto mi sembrò molto strano. Mi diressi verso la macchina e con mio stupore vidi il parabrezza completamente sfondato. Le portiere erano tutte graffiate e c’era una gomma a terra. «Merda!» Esclamai isterica. Perché avevano fatto questo?
Inizia ad avere paura di girare in città, quindi decisi di tornare a casa. Ero in prossimità del cancello della tenuta quando vidi qualcosa sul lato della strada, accostai. Erano dei sacchi, mi sembravano gli stessi di Cyrus e Harriette, li aprii con un piede… dentro c’erano solo alcune loro cianfrusaglie e dei vestiti malandati. Perché li avevano abbandonati?
Tornai in macchina ed entrai nel giardino principale, vista da fuori la casa mi intimoriva. Avevo capito che quel posto era maledetto, ma non potevo lasciare mio marito nelle sue grinfie. Ero convinta che le energie negative di cui anch’io avevo avvertito la presenza avessero condizionato psicologicamente Don, sapevo che se fossi riuscita ad allontanarlo da quel posto tutto sarebbe cambiato… Ma come potevo fare?
Scesi dall’auto e mi diressi verso l’ingresso, notai che nel parcheggio c’era ancora il furgoncino di Mike, evidentemente non aveva ancora finito di installare il telefono. Entrai e lo vidi chino che armeggiava con dei cavi.
«Salve» dissi entrando. «Oh salve Adrienne… questo lavoro mi sta impegnando più tempo del previsto…» disse asciugandosi la fronte.
«In questa casa andrebbero rifatti tutti gli impianti elettrici e considerando le dimensioni dello stabile vi costerebbe molto». Concluse sorridendomi.
«A essere sincera l’impianto elettrico è l’ultimo dei miei pensieri…» Risposi io togliendomi la giacca.
«Ha visto mio marito?» Gli chiesi. «No, credo che sia ancora al piano di sopra, ma francamente non sono andato a cercarlo».
«Capisco…» Risposi. «Mike, considerando che è ora di pranzo se vuole può mangiare qualcosa, ha fame?»
«Mi scusi ma preferisco finire il mio lavoro… credo che ci vorrà ancora molto, inoltre se suo marito ci vedesse pranzare insieme non oso immaginare cosa potrebbe pensare…»
Dopo quanto era successo non potevo certo dargli tutti i torti, anche se la presenza di Mike in casa mi infondeva un senso di sicurezza. Lo so può sembrare stupido, ma avevo un brutto presentimento.
Erano da poco passate le cinque del pomeriggio e iniziai a prepararmi per incontrare Malcolm, c’erano molte domande che volevo sottoporgli e avevo una gigantesca confusione in testa. Uscii dalla porta della sala da pranzo e mi ritrovai sul retro, temevo la reazione di Don se avesse visto la macchina. Quindi preferii uscire senza dare troppo nell’occhio.
Mi misi al volante e mi diressi verso la città, avevo ancora in tasca l’indirizzo che mi aveva lasciato Lou. Improvvisamente divenne tutto buio.
Mi stavano accecando. C’era qualcuno seduto in macchina dietro di me, sentivo di perdere il controllo della vettura. Cercai di svincolarmi da quella presa, ma era forte. Non riuscivo a trovare il freno con i piedi, la macchina andava veloce. A un tratto una voce che posso definire demoniaca mi disse «La tua corsa finisce qui».
I miei occhi furono liberati… davanti a me, la scogliera.
CAPITOLO 24
Schiacciai il freno con tutta la forza che avevo in corpo, la macchina sbandò e fece un giro su se stessa di 120 gradi slittando sull’asfalto.
Non appena si fermò del tutto aprii lo sportello di scatto e uscii, gettai un’occhiata sui sedili posteriori, ma non c’era nessuno. Avevo la tachicardia, ad appena un metro da me c’era la scogliera a picco sull’oceano. Mi avvicinai alla macchina e capii perché non riuscivo a vedere nessuno, uno degli sportelli posteriori era aperto. Chiunque avesse tentato di uccidermi era sceso. Forse quando la macchina era in corsa, il mio primo pensiero era quello di andare alla polizia, ma cosa gli avrei detto? Non potevo di certo raccontare quello che mi era capitato, chi mi avrebbe creduto?
Tornai in auto, chiusi ermeticamente tutte le portiere feci un grosso respiro e mi rimisi in viaggio. Arrivai dinanzi alla casa di Lou, era molto umile… piccola, forse avevano solo un paio di stanzette. Era bianca con un piccolo giardino all’inglese. Era incredibile come Malcolm fosse passato da una tenuta sfarzosa a una semplice casetta.
Mi avvicinai alla porta d’ingresso e suonai al campanello, dopo alcuni secondi sulla soglia comparve Lou.
«Salve Adrienne, ha trovato subito la strada?» Mi chiese.
«Sì, ma non senza emozioni…» Le risposi ripensando alla mia disavventura. Lou mi sorrise non capendo ovviamente a cosa mi riferissi, poi mi invitò a entrare dicendo «mio padre l’aspetta».
Mi fece accomodare in un salottino ben arredato con tanto di camino fiammeggiante, a fare ombra sulle pareti c’era una vecchia poltrona rossa, su di essa era comodamente seduto un vecchio… era Malcolm.
L’uomo stringeva tra le mani un maestoso bastone antico, aveva una lunga barba grigia e pochissimi capelli, si percepiva a occhio che aveva problemi di salute.
«Signorina si accomodi…» disse il vecchio con fare gentile.
«Mi chiamo Adrienne Deleyne, sono qui per…» l’uomo mi fissò e con un cenno mi ammutolì. «So chi è lei e so perché è venuta. Lei è la nuova proprietaria della tenuta dei Carnovash, ma è anche colei che ha risvegliato Satana… io lo sento». Fui colpita da un brivido gelido, non sapevo cosa dire dopo tali affermazioni. Poi con un filo di voce gli chiesi «perché dice questo?»
«Deve sapere che agli inizi degli anni quaranta, io ho vissuto il periodo più bello di tutta la mia vita. Vivevo alla tenuta con Zoltan e la sua prima moglie Hortencia e furono le persone più buone che io abbia mai conosciuto. Zoltan era una continua sorpresa, mi insegnò molti giochi di prestigio e non faceva che riempirmi di regali, sempre costosissimi. Hortencia era la madre che ogni bambino potrebbe sognare, affettuosa, premurosa e sempre disponibile… anche quando rimase incinta di Daiana non cambiò i sentimenti che provava per me. Un maledetto giorno però venne alla tenuta un vecchio amico di Zoltan, credo si chiamasse Geremia. Quest’ultimo girava in tutto il mondo alla ricerca di nuovi spettacoli illusionistici, quel giorno portò con se varie cianfrusaglie tra cui un barile magico da cui uscivano infiniti conigli, un pappagallo parlante e un libro…» Il tono di Malcolm cambiò, tossì mettendosi la mano sulla bocca e aggrottò la fronte. Poi continuò «quel piccolo libro nero scatenò l’inferno. Dopo averlo letto, Zoltan divenne irrequieto, violento… divenne il male».
«Ma com’è possibile? Cioè Zoltan fu un uomo impeccabile, ma dopo aver letto un libro divenne un mostro?» Gli chiesi io con aria sbalordita.
«Proprio così signora… Subito dopo aver letto il libro Zoltan uccise sua figlia Daiana mutilandola con uno specchio, io assistetti a tutta la scena, ma avevo troppa paura per parlare, inoltre quanto poteva valere la parola di un bambino contro quella dell’uomo più potente della città?… Subito dopo la mia camera divenne la torre, dove dopo la morte di Hortencia venni imprigionato lì per giorni e…» al vecchio vennero dei tremori, deglutì un po’ di saliva e continuò il suo racconto «Io non ne ho la certezza, ma credo che lui abbia ucciso tutte le sue mogli… torturandole in modi atroci».
«Cosa successe la sera del Phantasmagoria show alla tenuta?» Chiesi al vecchio stringendomi le braccia allo sterno.
«Zoltan invitò tutta l’alta borghesia della città ad assistere al suo nuovo show che aveva portato in tutta Europa, costruendo la sua sedia della morte da cui solo lui sapeva come uscirne vivi. Ma lo show non ebbe il successo sperato, sua moglie Marie e il guardiano Gaston avevano una relazione segreta… i due decisero di eliminare Zoltan la sera dello show manomettendo la sua sedia della morte. Egli non riuscì a liberarsi e l’ascia lo colpì in pieno, ma per sua fortuna non morì». Malcolm fece un’altra pausa poi bevve un bicchiere d’acqua.
«Cosa successe allora?» Insistetti io.
L’uomo prese un altro respiro profondo poi disse «Zoltan finì in coma e alla tenuta restammo io, Marie e il suo amante Gaston. Dopo una settimana di coma Zoltan si svegliò e si dileguò dall’ospedale, quando Marie apprese la notizia era ormai troppo tardi… il marito aveva già trucidato Gaston il cui corpo giaceva nel teatro orribilmente mutilato. Poi toccò a Marie… Lei urlava pietà mentre Zoltan la immobilizzava sulla sedia della morte. Io ero nascosto nei passaggi segreti e con mio orrore osservai tutta la scena. La lama scendeva sempre più velocemente, fino a quando la testa di Marie fu fatta a metà spargendo il suo contenuto su tutto il sipario… Fu allora che successe qualcosa di impensabile, Gaston che credevo essere morto si alzò e con il suo ultimo respiro trapassò il corpo di Zoltan con un pugnale. Quest’ultimo vacillò e cadde a terra… qualche istante più tardi chiamai la polizia che portò i corpi in obitorio, ma al loro arrivo gli agenti non riuscirono a trovarmi. Rimasi nascosto all’interno delle pareti, avevo ancora qualcosa da fare in quel luogo».
«Cosa?” Gli chiesi io con un tono stupefatto.
«Sapevo che il corpo di Zoltan era stato posseduto da un demone, e sapevo che non sarebbe bastata una pugnalata per distruggerlo. Mi nascosi in casa osservando il giardino dalla finestra della torre. In tarda nottata vidi una sagoma nera trascinarsi verso l’ingresso, era Zoltan. Iniziai a tremare, mi abbassai e come reazione involontaria iniziai a piangere. Sentii un rumore venire dai piani bassi, Zoltan era entrato in casa. Arrivai alla sommità dello scalone in punta di piedi giusto in tempo per vedere quel mostro trascinarsi in uno dei passaggi segreti del teatro, tra le mani stringeva quel libro maledetto. Lo seguii fino a quando si bloccò proprio in mezzo ai passaggi segreti, io sapevo dove era diretto… Stava andando nella sua sala segreta accessibile solo attraverso quei passaggi. Mi avvicinai al suo corpo, fu allora che vidi il demone uscirne ed entrare nel libro, un orribile luce verde perforò quelle pagine. Presi coraggio e trascinai il suo corpo lungo un’interminabile rampa di scale e lo lasciai lì dove lui avrebbe voluto. In seguito tornai indietro e raccolsi il libro, in quel punto preciso della scalinata si aprì una voragine, riuscii a scamparla per un pelo. Con quel briciolo di forza che mi era rimasta andai nella cappella e rinchiusi il libro in uno scrigno e per assicurarmi che non creasse altri problemi bloccai il coperchio con un grosso libro della famiglia Carnovash e murai il passaggio dietro al camino della biblioteca. Il segreto di Zoltan era rinchiuso in una cappella consacrata, dove speravo potesse essere nascosto per sempre… fino al suo arrivo».
«In che senso?» Gli chiesi, anche se in realtà avevo perfettamente capito a cosa si riferisse, l’uomo mi guardò serio e stringendo con forza il bastone disse «lei ha aperto lo scrigno dica la verità?»
«Sì, ma…» dissi io cercando di giustificarmi, ma come potevo?
«Aprendo lo scrigno lei ha liberato il demone, che a quest’ora avrà già trovato un corpo che userà a suo piacimento per fare del male.»
Dentro di me piombò il gelo, ormai era chiaro… Don era posseduto.
Iniziai a singhiozzare, «oh mio Dio… Dio… mio marito, mio marito Donald si comporta stranamente da quando… da quando ho aperto quello scrigno».
Gli dissi con le lacrime agli occhi.
«Allora signora il suo problema è molto più grave di quel che può sembrare, se suo marito è stato posseduto da quel demone potrebbe già essere troppo tardi per lui».
«Cosa?!… no, non può essere, ci deve essere una soluzione…» gli dissi con un tono isterico.
«Signora forse ci sarebbe un’unica cosa che lei potrebbe fare».
CAPITOLO 25
Lasciai alle mie spalle la casa di Malcolm e mi diressi verso la macchina, forse grazie alle ultime parole di quel vecchio sarei riuscita a salvare mio marito. Mi avviai verso casa, si era fatto buio, gli inverni a Home sono tra più cupi… iniziò a cadere una fitta nebbia e considerando la mia precedente avventura con la scogliera non mi sembrava il caso di sfidare la sorte correndo. Non facevo che pensare a tutta la situazione, perché avevo aperto quello scrigno? E perché il demone aveva scelto proprio Don? Ero agitata confusa la testa mi stava scoppiando. I fari dell’auto illuminavano la nebbia, sembrava di guidare contro un muro, anche se può sembrare assurdo non vedevo l’ora di tornare a casa.
Superai il maestoso cancello gotico e parcheggia l’auto al solito posto, c’era ancora il furgoncino di Mike. Entrai in casa e lo vidi mentre metteva a posto la sua attrezzatura. «Ah è lei», disse l’uomo porgendomi la cornetta del telefono. «Adesso funziona perfettamente!» Esclamò ridacchiando compiaciuto. Afferrai la cornetta e l’avvicinai all’orecchio… Funzionava.
«Mike non so proprio cosa dirle, ma grazie davvero. È incredibile pensare che esiste ancora gente che dedichi il suo tempo per gli altri…» gli dissi sorridendogli.
«Non si preoccupi Adrienne avrei dovuto scegliere se stare qui un’intera giornata o più di una… ho optato per la prima opzione, inoltre non si preoccupi per il pagamento, prima è sceso suo marito e mi ha detto che se ne sarebbe occupato lui». La mia espressione lo turbò, i miei occhi mi tradivano.
«Come dice? Don è sceso e le ha detto questo?» Gli chiesi incredula.
«Sì… è sceso una decina di minuti fa, mi ha detto che aveva delle cose da fare fuori». Concluse Mike avviandosi verso l’uscita.
«Capisco, allora grazie ancora». Lo liquidai.
Mike uscì e si diresse verso il suo furgoncino, io richiusi la porta dietro di lui. Mi girai in un attimo e a passo svelto mi diressi verso lo studio… se Don era uscito per davvero dovevo approfittare di quel momento. Malcolm mi disse che la prima cosa che avrei dovuto fare per liberarmi di quella situazione ero recuperare il libro nero.
Entrai in biblioteca e chiusi la porta alle mie spalle, accesi le luci e passai attraverso il camino, la cappella era buia e umida, mi diressi verso l’altare e lo esaminai.
Lo scrigno che conteneva il libro era a terra… era vuoto.
CAPITOLO 26
Non riuscivo più a pensare con razionalità, preferivo agire seguendo dei punti prefissati. Il primo era quello di recuperare il libro, ma il libro era sparito. Dove poteva essere? Avevo la certezza matematica che fosse in casa, che era l’equivalente di trovare un ago in un pagliaio. Uscii dallo studio e attraversai l’atrio, se il libro l’aveva preso Don poteva averlo portato solo in un posto… la camera oscura, la stessa a cui io non avevo più accesso ormai da diversi giorni.
Volevo approfittare dell’assenza di Don per togliermi questo dubbio… ma se lui fosse rientrato mentre io ero nella cappella?
Proseguii a passo svelto, a un tratto il mio sguardo cadde sulla macchina del futuro, era completamente distrutta. Il manichino della zingara penzolava dalla sua custodia, faceva quasi impressione, ma considerando quello che avevo visto in precedenza mi sembrò un’inezia. Salii le scale e mi diressi verso la camera oscura, la porta era chiusa. Bussai.
«Don sei lì dentro?» Nessuna risposta, avvicinai l’orecchio al freddo legno della porta. Non sentii nulla. Afferrai la maniglia e provai ad aprire, era come temevo chiusa a chiave.
Mi venne allora un’idea, il paspartue! Mi tornarono alla mente le parole di quel mostro del consulente immobiliare…
“… ho solo questo paspartue, dovrebbe aprire tutte le porte…”
Presi la grossa chiave dalla tasca e la inserii nella serratura, la girai. La serratura scattò la porta si aprì.
Cosa avrei trovato dall’altra parte? Perché Don teneva sempre questa stanza sotto chiave? Presto le mie domande avrebbero trovato risposta.
Aprii la porta, non riuscivo a vedere niente, era buio pesto. Giustamente era una camera oscura, l’unica fonte di luce doveva essere la lampada a raggi rossi che era caduta qualche giorno prima in testa a Don… per raggiungerla mi sarei dovuta addentrare in quelle tenebre.
A un tratto percepii dei rumori dietro di me… era Don.
CAPITOLO 27
Percepivo chiaramente i suoi passi sulle scale dell’atrio, mi prese il panico. Chiusi la porta e girai il mio paspartue, la serratura scattò di nuovo. Non osavo immaginare cosa avrebbe fatto se mi avesse trovata lì, rimisi la chiave in tasca e mi diressi verso i piani superiori. Mi nascosi dietro a un panneggio che dal soffitto arrivava fino a terra, in attesa che lui comparisse da un momento all’altro.
Come avevo previsto Don si avvicinò alla camera oscura e dopo aver usato la sua chiave vi entrò richiudendo la porta dietro di se.
Il mio tentativo era fallito, mi diressi verso la mia camera e mi rannicchiai sul letto. Mille pensieri annebbiavano la mia mente, rivolevo la mia vita, mio marito e la nostra felicità rubata.
Ora non so spiegarlo, né so come sia potuto succedere, ma mi addormentai.
Sabato 22 ottobre 15:30
Mi svegliai nella stessa posizione rannicchiata in cui mi ero messa, inizialmente ero convinta di aver dormito solo pochi minuti, il cielo era nero e infuriava un temporale. La pioggia colpiva con violenza le sottili vetrate della mia camera, fissai l’orologio e sbandai di colpo. Era tardissimo, avevo dormito molto più di quanto pensassi, scesi dal letto e cercai di rassettarmi.
Iniziai a pensare che forse la soluzione migliore sarebbe stata quella di scappare, mi tornarono alla mente le parole della macchina del futuro…
“Il male è qui. Cerca di salvarti.”
E se avesse avuto ragione?
La mia attenzione fu rapita da qualcosa che non avrei mai immaginato, il mio portatile era in mille pezzi lungo tutto il corridoio, iniziai quindi a tremare.
Come poteva essere Don responsabile di tutto questo? Mi avvicinai al corridoio e vidi una strana luce provenire da una delle camere che avevo adibito a deposito.
Mi avvicinai in punta di piedi e vidi uno specchio appeso al muro che brillava di una luce penetrante, lo esaminai più da vicino… nello specchio apparve chiaramente un uomo seduto nel camerino del teatro… indossava un mantello nero, si stava mettendo in faccia del trucco bianco teatrale, mi sembrava quasi di avere davanti a me un monitor.
L’uomo rideva isterico, a terra c’erano dei vestiti… erano i vestiti di Don!
Era Don l’uomo che si stava truccando! Indietreggiai di un passo, perché Don stava facendo questo? In un istante precipitai in un incubo, Don aveva le labbra sporche di rosso, rosso sangue. Si alzò in piedi e calpestò qualcosa sul pavimento del camerino… era una mano.
L’immagine nello specchio svanì, riuscii a stento a evitare un conato di vomito. Uscii da quella stanza e mi diressi nella mia, presi come di scatto da sotto al letto una valigia, iniziai a riempirla di tutto quello che avevo a portata di mano. La chiusi ermeticamente e mi avviai verso la finestra, il temporale stava degenerando, dovevo andarmene da lì il più presto possibile.
Aprii la finestra e lasciai cadere la valigia, precipitò vorticosamente in giardino, erano almeno venti metri, non potevo di certo calarmi da lì, sarebbe stato un suicidio, ma gettarla mi sembrò l’idea migliore perché se Don mi avesse vista per casa con la valigia, avrebbe capito che me ne stavo andando. Decisi quindi di uscire dalla porta principale, di recuperare la valigia e di mettermi in macchina.
Chiusi la finestra e mi diressi verso il corridoio, il mio sguardo cadde sulla foto che avevo messo qualche giorno prima sul comodino, nella fotografia Don mi prendeva a cavalluccio, eravamo in un lago dove trascorremmo la luna di miele. Mi cadde istintivamente una lacrima lungo tutta la guancia destra.
Percorsi tutto il corridoio con passo felpato e scesi la prima rampa di scale, tutto tranquillo. Passai davanti alla camera oscura, era ancora chiusa, ma sinceramente in quel frangente non me ne fregava più molto. Se quello che avevo visto nello specchio corrispondeva alla realtà, Don probabilmente si trovava ancora nel camerino del teatro, quindi lo considerai un punto a mio favore.
Arrivai alla sommità dello scalone e mi affacciai, non c’era nessuno, i fulmini illuminavano tutto l’atrio facendo risplendere i suoi marmi.
Scesi un gradino alla volta fino ad arrivare all’ingresso principale, mi avvicinai alla porta e afferrai la maniglia. La porta si aprì, feci per tirare l’anta verso di me quando a un tratto una forza invisibile la chiuse trascinandomi contro di essa. In una frazione di secondo sentii sbattere tutte le finestre della casa, anche quelle dell’atrio si chiusero da sole.
«Che caz…?!» Esclamai in preda al panico.
Riprovai subito dopo ad aprirla, ma la porta non si muoveva di un millimetro, iniziai a prenderla a calci e vi sbattei con violenza le braccia contro, ma niente.
Iniziai a correre attraversando tutto l’atrio fino a giungere in sala da pranzo dove si trovava la porta che dava sul retro, tentai di aprirla, ma come l’altra anch’essa non si muoveva.
La mia adrenalina era alle stelle, afferrai una sedia e la scaraventai contro la finestra, vi rimbalzò contro distruggendosi. Mi avvicinai al camino e presi un attrezzo appuntito simile a un martello che faceva parte dello stesso set dell’attizzatoio che sottrassi in precedenza. Corsi alla finestra e iniziai a colpirla con violenza, ma niente. Quel vetro sembrava acciaio temperato. Lasciai cadere l’attrezzo a terra e urlai per la disperazione.
Ero in trappola. Cercai di evitare il panico, ma era difficile in quella situazione. Stavo per cadere vittima di una vera e propria crisi, non riuscivo a respirare con regolarità, sentivo una strana energia malefica tutta intorno a me.
Il mio piano era sfumato, non potevo più fuggire, era dura ammettere di aver fallito, ma forse c’era ancora una speranza. Dopo alcuni istanti di isteria decisi di riprendere la mia indagine da dove l’avevo lasciata la sera precedente. Avevo ancora in mente il discorso conclusivo di Malcolm…
«Signora forse ci sarebbe un’unica cosa che lei potrebbe fare. Per prima cosa deve recuperare il libro, quest’ultimo è indispensabile se desidera realmente salvare suo marito. Come secondo punto lei deve recuperare il talismano di Zoltan Carnovash, non ho idea di dove si trovi, ma di sicuro è in casa e anche questo oggetto è indispensabile. Per ultima cosa ma non meno importante deve procurarsi un oggetto sacro, un qualsiasi oggetto benedetto, non so, potrebbe essere una croce oppure un’immagine sacra…»
«E cosa devo fare dopo aver recuperato questi oggetti?» Gli chiesi io.
«Mia cara signora, io so solo che questi oggetti le saranno indispensabili per la sua salvezza e sono sicuro che lei saprà in che modo utilizzarli…»
Non avevo idea di dove poteva trovarsi questo talismano e lo stesso valeva per l’oggetto sacro, ma ero convinta che il libro lo tenesse Don.
Dovevo ripercorrere i miei passi, dovevo entrare in quella camera oscura per perquisirla e cercare il libro tanto citato dal vecchio Malcolm.
Ripercorsi nuovamente l’atrio fino a giungere alle scale, gettai un’occhiata alla porta col dragone verde che dava sul teatro, era chiusa.
Mentre salivo le scale fissai la parete sulla quale Mike aveva collocato il telefono, con mio stupore lo vidi completamente sradicato dal muro. Gelai.
Percorsi il corridoio fino ad arrivare alla camera oscura, infilai tremante il paspartue nella serratura e aprii quella inquietante porta di legno.
La situazione non era cambiata, dal punto in cui mi trovavo non riuscivo a capire cosa ci fosse in quella stanza. Dovevo raggiungere la lampada, si trovava a circa tre metri da me e dovevo farlo in fretta perché non avevo idea di quanto tempo avessi a disposizione. Don sarebbe potuto arrivare da un momento all’altro ed ero terrorizzata. Cosa avrei trovato in quel posto proibito?
Feci un passo alla volta fino a che la luce del corridoio mi sembrò lontanissima, ero praticamente a pochi centimetri dalla cordicella che avrebbe fatto accendere la lampada a raggi rossi.
L’ansia padroneggiava su tutta la situazione, ora non ricordo esattamente le mie sensazioni, so solo che afferrai la cordicella e la tirai.
CAPITOLO 28
Una tenue luce diffusa di colore rosso piombò nella stanza, c’era un’atmosfera umida. Sentivo chiaramente il rubinetto che perdeva gocce, mi guardai intorno, d’un tratto fissai il muro… c’era uno strano mosaico di foto che ricopriva tutta la parete, cercai di ingranare gli occhi che si stavano lentamente abituando a quella luce.
Non riuscivo più a muovermi, mi portai una mano alla bocca per l’agghiacciante scoperta. Su tutta la parete c’erano mie foto con la testa decapitata.
I miei occhi erano increduli, non riuscivo a staccarli dalla parete, ma a un tratto furono attirati da qualcosa che stava su uno scaffale. Era un piccolo libro nero, era proprio quello che avevo visto nella cappella sei giorni prima.
Feci un passo avanti in direzione dello scaffale, avevo finalmente avuto la conferma di ciò che pensavo, il libro era nella camera oscura, ora dovevo trovare il talismano di Zoltan e un oggetto sacro… ero ancora turbata per quelle orribili fotografie. Feci un altro passo e con mio orrore sentii uno scricchiolio provenire dalle mie spalle, era un suono familiare, un suono che avevo sentito pochi secondi prima. Era la cordicella della lampada che veniva tirata, la luce si spense, io mi girai di scatto e vidi una sagoma nera con un volto pallido che mi fissava ridendo, era Don.
«Hai visto la mia opera d’arte Adrienne?» Disse ridendo in modo malefico.
«Noo…» le parole non mi uscirono di bocca, mi sentivo soffocare poi Don aggiunse.
«Oh ma ho in mente un vero e proprio show per te! Ahahah!»
In una frazione di secondo vidi Don avventarsi contro di me, cercai di schivarlo abbassandomi, ma lui mi afferrò per le spalle e mi scaraventò contro il lavandino. Poi le sue mani come delle morse mi afferrarono per il collo e iniziarono a stringere, il suo volto divenne inespressivo. Sembrava quasi un pupazzo con tutto quel trucco bianco e quel diabolico mantello nero.
Non riuscivo più a respirare, l’ossigeno non entrava più nel mio corpo, sentivo che stavo per perdere le energie quando vidi una cosa. Alla mia destra c’era lo sturalavandini in acido che avevo comprato a Don, cercai disperatamente di raggiungerlo. Riuscivo a toccare il flacone con la punta delle dita, ero praticamente in apnea. Sapevo che era la mia unica speranza, mi allungai di un altro centimetro, le mani di Don stringevano sempre più forte. Impiegai tutte le mie ultime energie e finalmente riuscii ad afferrarlo, con uno scatto fulmineo gettai in faccia a Don tutto il suo contenuto.
Lui barcollò e cadde a terra urlando per il dolore, l’acido gli stava corrodendo la faccia mutandogliela mostruosamente, dopo un paio di secondi ripresi a respirare con regolarità.
Mi alzai in piedi e mi fiondai fuori dalla stanza, Don si stava rialzando stracciandosi di dosso il mantello, mi lanciai nel corridoio ed entrai nella camera adiacente, era quella di Daiana.
Chiusi di scatto la porta e usai il paspartue per guadagnare tempo, cercai di spingere un armadio contro la porta per barricarla, ma era troppo pesante.
Sentivo provenire dal corridoio le urla incomprensibili di Don, il terrore aveva preso il sopravvento, era inutile tentare di aprire la finestra cos’altro potevo fare? La porta stava per essere sfondata.
Iniziai a guardarmi intorno per cercare qualsiasi cosa che potesse essermi utile, ma era una camera di una neonata, non un’armeria. C’era un armadio molto semplice, una culla con delle rifiniture in mogano alcuni pupazzi di pezza e uno specchio rotto… Mi venne un’illuminazione, mi lanciai verso la parete a cui era appeso lo specchio e lo staccai di colpo. Lo lasciai cadere a terra frantumandolo in infinite schegge, d’un tratto sentii la porta fracassarsi. Mi chinai a terra dando le spalle a essa, Don fece irruzione come una furia.
«Te la sei cercata puttana!» Gridò muovendosi verso di me. Io chiusi gli occhi e con la mano destra racimolai una cospicua quantità di schegge di vetro. Don mi afferrò per i capelli e mi sollevò da terra. Gridai in preda alla furia lanciandogli tutte le schegge che avevo raccolto negli occhi, Don sbandò di colpo lasciandomi cadere.
Mi risollevai da quel pavimento ormai simile alla carta vetrata e iniziai a correre, avevo tutta la mano destra sanguinante e dovevo decidere velocemente la mia prossima mossa.
Come una furia attraversai il corridoio facendo cadere dietro di me una colonna con sopra un vaso cinese nella speranza che Don vi inciampasse, mi intrufolai nella camera di Zoltan e Marie e chiusi bene la porta dietro di me.
Arrivai al muro del passaggio segreto e lo palpai disperatamente nella ricerca del bottone, nel frattempo la porta stava cedendo sotto i violenti colpi di Don. La fissavo mentre con le mani cercavo l’insenatura. La carta da parati si stava completamente dipingendo del mio sangue, la porta iniziò a frantumarsi, d’un tratto tirai una boccata d’aria e finii con le dita nell’insenatura della parete. Schiacciai il bottone, il pannello si aprì.
Con mio sgomentò scoprii che il passaggio era ostruito, non capivo cosa lo bloccasse, era una sorta di sacco che intravedevo in quel buio pianerottolo. Iniziai a tirarlo verso di me cercando di farlo il più rapidamente possibile… la porta non avrebbe resistito ancora per molto.
Finalmente si smosse rotolando nella stanza e liberando la mia unica via di fuga, ma con orrore e turbamento capii subito che non si trattava di un sacco.
Era un corpo, un cadavere violaceo di un uomo adulto. Tirai un urlo e allo stesso tempo un’occhiata alla porta. Don aveva creato un buco con un pugno in corrispondenza della serratura, la sua mano cercava la maniglia.
Mi feci coraggio e mi infilai nel condotto, diedi un’ultima occhiata al cadavere, aveva le orbite degli occhi prive di bulbi oculari e una pala da giardinaggio nel torace. D’un tratto lo riconobbi, era Mike.
Sentii la porta alle mie spalle aprirsi, entrai nel passaggio segreto e abbassai di scatto la leva facendolo richiudere. Impiegai tutte le mie energie per spezzarla e la infilai nell’ingranaggio della carrucola bloccandola.
Iniziai a correre verso l’ascensore fiondandomi nella cabina, afferrai la manopola e cominciai a girarla il più velocemente possibile, l’ascensore iniziò la sua discesa con la velocità di una messa, arrivai a circa metà del mio percorso quando la cabina si fermò di colpo. Non riuscivo a capire cosa la bloccasse.
Continuai a girare la manopola, ma le mie mani scivolavano inutilmente su di essa.
Guardai verso l’alto, c’era Don che girava l’altra manopola… l’ascensore iniziò a salire. Aveva completamente distrutto il passaggio nel muro senza che io me ne rendessi conto, Don iniziò a fissarmi dicendo «Oh! Puttana… vieni anche tu alla festa? Credo proprio di si!» Poi fece una pausa e proseguì «dai Adrienne tesoro voglio fare l’amore con te!»
Persi la razionalità dopo aver sentito tali follie e mi lasciai cadere nella tromba dell’ascensore, precipitai a terra slogandomi un polso. Mi tolsi i capelli dal viso e mi rimisi in piedi.
Mi ritrovai alle prese con le tre diramazioni che avevo già visto in precedenza, prendere la prima sarebbe stato un suicidio visto che la scalinata di pietra portava a una voragine invalicabile, probabilmente era la stessa che citò Malcolm nel suo racconto. Scelsi la seconda e iniziai a correre, arrivai al pannello che dava sulla cappella, afferrai la leva marcia e la tirai. Con mio stupore la fragile asta di legno si sgretolò nelle mie mani, non era più possibile aprire il passaggio. L’ascensore stava scendendo, se fossi tornata indietro per prendere la terza diramazione Don mi avrebbe sicuramente raggiunta.
Continuai a correre in direzione della cripta sotto al cimitero, la tempesta che infuriava all’esterno stava allagando il condotto che era alimentato dagli sfiatatoi che si trovavano in alto sul soffitto. Entrai nella cripta con l’affanno e iniziai a pensare alla mia prossima mossa, notai un piccolo spazio dietro alla tomba di Marie, pensai che forse mi sarei potuta nascondere lì. Mi avvicinai a quella sorta di sarcofago e notai un luccichio provenire dal suo interno, era il crocifisso d’argento che avevo già notato in precedenza, di colpo mi ricordai delle parole di Malcolm:
“… deve procurarsi un oggetto sacro…”
Raccolsi d’istinto la reliquia strappandola dalle mani del cadavere di Marie e la infilai in tasca. Sentivo che Don stava arrivando e sapevo che nascondersi non sarebbe servito a nulla. Mi guardai intorno e riconobbi la colonna corinzia col capitello di pietra, mi diressi verso di essa cercando di mimetizzarmi col muro.
Don fece irruzione nella lugubre saletta urlando frasi profane, si era posizionato esattamente dall’altro lato della colonna.
Salii in punta di piedi iniziando a spingere il pesante capitello già traballante, Don suggerito da uno scricchiolio fissò il soffitto, non riuscendo a evitare però che il grosso masso lo colpisse in pieno. Sbucai fuori dal mio nascondiglio e iniziai a correre a ritroso verso i passaggi segreti, Don era momentaneamente fuori gioco. L’acqua nel passaggio mi arrivava ormai alla vita rallentando la mia fuga, d’un tratto persi l’equilibrio e caddi pesantemente in acqua. Mi risollevai nauseata, l’acqua era nera e piena di insetti che vi nuotavano, cercai di muovermi ma ero come impigliata in qualcosa. Infilai un braccio in quella melma cercando di liberare la caviglia e afferrai un oggetto. Era una testa, un capo umano con gli occhi e la bocca orribilmente cuciti con del filo di nylon, la lasciai cadere per lo spavento e cercai di ripulirmi le mani su quello che rimaneva della felpa. Ero turbata e inorridita, avevo riconosciuto quel volto era di Cyrus.
Mi sentivo braccata, non avevo più fiato e non riuscivo a vedere una via di fuga da quell’incubo. Arrivai sfinita fino alla diramazione e aprii il passaggio che portava in teatro, il pannello si chiuse alle mie spalle.
In una frazione di secondo notai qualcosa di diverso, c’era una sagoma seduta su una delle poltrone in platea. La vedevo chiaramente di spalle, aveva i capelli grigi e un cappello rosso. «Harriette?!» Gridai senza ricevere risposta. Mi avvicinai lentamente, la sagoma non si mosse. «Harriette sta bene?» Le chiesi poggiandole una mano sulla spalla destra. Quella sagoma si voltò, il mio sangue divenne di ghiaccio… Non era Harriet, era Don! «Noo!» Gridai sbandando.
«Sai tesoro ci sono altri passaggi segreti di cui ignori l’esistenza!» Esclamò ridendo in tono malefico.
La sua faccia ustionata dall’acido era impregnata di sangue fresco che sembrava sgorgare da quei capelli grigi che mi avevano tirato in inganno. Feci un altro passo indietro e incappai in un corpo, era quello della vera Harriette. La donna era coricata sul tappeto, i suoi capelli le erano stati strappati dalla carne, da quello che rimaneva del cranio fuoriusciva una cospicua quantità di cervello che era sparso su tutto il tappeto. Mi venne un malore. Cercai di non svenire e iniziai a correre verso il palco per rifugiarmi nel camerino, Don era ancora comodamente seduto sulla poltrona leccandosi le mani che si era passato sulla faccia «Adrienne ti andrebbe una pizza?! Con un po’ di salsa sopra eh?» Cercai di ignorare quella voce e mi inoltrai nel camerino, sul pavimento c’erano ancora i vestiti di Don, quelli che indossava prima che si infilasse quegli abiti da prestigiatore. Notai una sorta di protuberanza in uno dei tasconi del jeans, lo esaminai… dentro c’era il pupazzo di neve.
Mi tornarono alla mente i ricordi di quando eravamo felici, quel pupazzo di neve rappresentava l’amore della nostra unione e in quell’istante mi diede una grossa carica. Lo infilai nella tasca della felpa e mi diressi verso l’armadio. Lo aprii.
«Adrieeene?» Sentii la voce di Don provenire dal teatro, aveva un tono cattivo e infantile.
Feci un po’ di spazio all’interno del vecchio mobile antico e mi ci infilai chiudendo le ante, mi nascosi tra i vecchi vestiti di scena e sapevo che da un momento all’altro Don mi avrebbe trovata.
Nell’armadio era tutto buio, sentivo il mio cuore battere come se fosse stato un orologio, sentivo dei passi nel camerino, subito dopo sentii la sua voce…
«Adrienne… Dove sei? Ho un bellissimo regalo per te!… Adrienne non sarai mica nell’armadio?»
Mi venne una vera e propria tachicardia, ma a un tratto mi ricordai di una cosa. Iniziai a cercare il bastone da mago che avevo visto la prima volta che entrai nel teatro, ricordai che aveva un’estremità con una lama affilatissima. Mi chinai e ispezionai il fondo, finalmente lo trovai.
Don spalancò le ante dell’armadio gridando «Sorpresa!»
Scattai da dietro i vestiti impugnando il bastone come una lancia conficcandoglielo nel torace, Don urlò per il dolore.
Approfittai del momento per scappare da quel camerino e correre verso la porta col dragone, nel frattempo Don estrasse il bastone dal suo torace leccandone l’estremità affilata.
La porta era pesantissima, abbassai la maniglia e la spinsi con energia, riuscii ad aprirla. Di colpo la maniglia si staccò dalla porta cadendo sui marmi del pavimento dell’atrio. Lasciai la porta e mi diressi verso lo scalone, dovevo recuperare il libro che avevo lasciato nella camera oscura.
Quando arrivai alla sommità delle scale mi chinai in avanti per riprendere fiato, feci due grossi respiri poi iniziai a correre in direzione di quella maledetta stanza, che era rimasta aperta. Entrai e raccolsi il piccolo libro nero dalla mensola e lo infilai nel largo tascone del mio jeans. Ora se volevo eseguire le istruzioni di Malcolm dovevo trovare in fretta quel misterioso talismano… il problema era che non avevo la minima idea di dove cercare.
Di colpo fui afferrata per il collo, non potevo muovermi. Don mi aveva presa alle spalle e mi stava soffocando, con i piedi cercai di opporre resistenza, ma era inutile.
«Sei venuta a dare un’altra occhiata alla mia opera d’arte?» Disse lui con voce psicotica. I miei occhi si stavano chiudendo, ormai era diventato tutto buio, le forze stavano abbandonando il mio corpo. Don mollò la presa per un istante ridendo come una iena, io caddi a terra e persi conoscenza.
Ero già morta?
CAPITOLO 29
I miei occhi si stavano lentamente riaprendo, vedevo tutto sfocato. Non avevo idea di quanto fossi rimasta priva di sensi, cercai di muovermi ma ero immobilizzata. I miei occhi iniziarono a mettere a fuoco, le pareti intorno a me erano tutte dorate, capii subito dov’ero… in teatro.
Precipitai in un attimo nel mio incubo peggiore, ero incatenata sulla sedia della morte, riuscivo a muovere solo il braccio sinistro… ai miei piedi c’era Don che sghignazzava mentre finiva di immobilizzarmi.
«Sei stata cattiva Adrienne, non posso fidarmi di te!» Esclamò avvitando dei bulloni alle morse del piede destro.
Guardai verso il soffitto, l’ascia era bloccata nell’attesa che qualcuno la attivasse, sulla mia sinistra c’era la leva che avrebbe messo in funzione il meccanismo. Le lacrime uscivano dai miei occhi senza che io avessi nessuna voce in capitolo, iniziai a fissare Don e con voce tremante gli dissi. «Don ti prego non farlo… Ti prego tesoro…» Poi mi bloccai, pensai a una cosa… Infilai la mano sinistra nella tasca della felpa e presi il pupazzo di neve lo porsi a Don. «Guarda, guarda tesoro… Ti ricordi questo pupazzo di neve? Ricordi me l’hai regalato tu, ti prego non farci questo. Ti prego tesoro io ti amo…» Don si alzò in piedi e iniziò a fissare la decorazione natalizia prendendola in mano, era proprio di fronte a me. Iniziò a guardarmi con gli occhi che negli anni avevo imparato a conoscere, sentivo che l’uomo che avevo sempre amato stava tornando.
«Don guardami, guardami! Sono Adrienne… Ricordi il giorno che me lo regalasti? Stavamo a casa tua in quel piccolo appartamento era il giorno di Natale…» i singhiozzi mi impedirono di completare la frase, Don mi guardò in maniera dolce e lentamente stava avvicinando la sua mano verso di me io continuai a parlagli «so che tu… io ti amo ancora…»
In un attimo l’espressione di Don cambiò radicalmente, ridivenne inespressivo iniziò a stringere il pupazzetto, la decorazione si sbriciolò nel suo pugno. Era ancora in piedi di fronte a me, nei suoi occhi leggevo il male, fu allora che feci una cosa che non avrei mai ritenuto possibile.
Afferrai di scatto col mio braccio sinistro la leva abbassandola, la lama precipitò vorticosamente trapassando lo sterno di Don in pieno. Gridai con tutta la voce che avevo in corpo iniziando a liberarmi da quelle morse.
Don cadde rovinosamente a terra, dopo essermi liberata del tutto mi chinai al suo fianco, lo abbracciai per l’ultima volta, lui chiuse gli occhi.
Iniziai a sentire la terra che tremava sotto i miei piedi, sembrava un vero e proprio terremoto. Il pavimento del palco iniziò a cedere, il corpo di Don sprofondò nelle tenebre, riuscii ad allontanarmi per miracolo.
Da quel buco nel parquet iniziò a fuoriuscire un’intensa luce verde, indietreggiai di un altro passo.
All’improvviso apparve un’enorme creatura ripugnante con occhi rossi e corna acuminate, sbandai di colpo inciampando nel tappeto che tagliava tutta la platea.
Il mostro iniziò a ruggire, era completamente circondato da una forte aura verdastra, era alto quasi tre metri e aveva braccia lunghe con affilatissimi artigli.
Senza neanche pensarci iniziai a correre verso la porta col dragone, il mostro iniziò a muoversi nella mia direzione lasciando alle sue spalle una sorta di bava verde che corrodeva tutto il pavimento.
La porta era chiusa, iniziai a spingerla ma era troppo pesante, la maniglia non c’era più.
Presi uno slancio e mi fiondai verso il passaggio segreto nel muro, quest’ultimo era aperto. Mi avvicinai all’ascensore di legno, ma il terremoto lo aveva completamente distrutto, gettai un’occhiata al cunicolo che conduceva alla cripta, era completamente allagato e quindi impraticabile. Il demone con un pugno distrusse il muro del teatro, presa dalla paura iniziai a correre verso l’unica diramazione consentita.
Percorsi tutta la scalinata di pietra scendendo di diversi metri, fino ad arrivare all’enorme voragine che avevo già visto in precedenza.
Ero in trappola, il mostro mi avrebbe raggiunta da un momento all’altro, mi guardai intorno ma non c’era nessun appiglio, se avessi tentato un salto sarei precipitata nel vuoto senza ombra di dubbio.
Sentivo il mostro ringhiare ferocemente, come un miraggio i miei occhi furono rapiti dal soffitto. C’era un tubo sulla mia testa che passava lungo tutta la voragine, feci un salto su me stessa e mi aggrappai con tutte le mie forze, iniziai a percorrerlo con le braccia. Il polso slogato mi dava un dolore lancinante, ma se avessi lasciato la presa sarei precipitata nel vuoto. Il tubo emanava strani cigolii, iniziò a cedere al mio peso, cercai di accelerare i movimenti nella sola speranza di superare il crepaccio.
A un tratto sentii che qualcosa mi stava scivolando dalla tasca, guardai verso il basso giusto in tempo per vedere un piccolo oggetto precipitare nel buco, non potevo di certo fare nulla. Il demone iniziò a scendere le scale corrodendole con la sua bava acida.
Avevo superato la voragine e mollai la presa, caddi a terra con un tonfo stirandomi la gamba, mi rimisi in piedi alla velocità della luce e continuai a correre lungo tutta la rampa di scale. Non avevo idea di dove sarei arrivata, finite le scale trovai un lungo corridoio con una grossa porta di legno robusta.
Riuscii a stento a frenare la mia andatura sbattendo contro la porta, afferrai la grossa maniglia d’ottone e tirai, la porta era chiusa. Il demonio aveva ormai superato la voragine e si stava dirigendo verso di me puntandomi con i suoi occhi di fuoco.
Notai che la serratura della porta era simile a quelle che avevo visto in casa e mi venne un’illuminazione, infilai la mano in tasca alla ricerca del paspartue… ma con orrore e sgomento non riuscivo più a trovare quella grossa chiave.
Era la chiave l’oggetto che era precipitato nella voragine.
CAPITOLO 30
La mia disperazione era arrivata al limite, il mostro era ormai a pochi metri da me, non facevo che spingere quella porta con tutta la forza che mi era rimasta. Di colpo capii che non era chiusa a chiave, ma semplicemente incastrata. Diedi un’atra spinta, la porta si aprì, mi catapultai al suo interno e la chiusi in una frazione di secondo.
Mi ritrovai in una saletta ovale con delle scalinate laterali che scendevano a spirale, esaminai la porta e notai una strana leva sulla parete adiacente, la afferrai e la abbassai di scatto. Una grossa grata precipito rapidamente lungo tutta la porta rendendola impenetrabile.
Mi allontanai e iniziai a scendere le scale, il demone era arrivato sulla soglia della porta e iniziò a colpirla. Scesi le scale fino a raggiungere una maestosa sala ovale, tutte le pareti erano ricoperte di oggetti illusionistici, tendaggi, macchinari di torture, etc.
Al centro della sala c’era in rilievo un cerchio verde di circa due metri e in mezzo a esso uno strano altare in pietra. Mi avvicinai con passo svelto e notai un cadavere seminascosto, sembrava mummificato, era sicuramente quello di Zoltan Carnovash.
Sentivo il demone ringhiare di rabbia, i suoi versi rimbombavano in tutta la sala, mi inginocchiai di fronte all’altare mettendo il libro al centro.
Iniziai a leggere, era scritto in latino.
“Sede in magicae oculus…”
Riuscivo a farmi un’idea del significato, lo tradussi “stai all’interno del cerchio, il cerchio magico…”, io ero già nel cerchio.
“Pone super faciem phylacterium pagina libri…”
Continuai a leggere, ma già al secondo rigo trovai delle difficoltà. Tradussi con “Metti il talismano sulla pagina aperta del libro”. Precipitai nuovamente nella disperazione, dov’era il talismano? Ripensai per un attimo alle parole del vecchio Malcolm… “… lei deve recuperare il talismano di Zoltan Carnovash…”
Lasciai per un attimo la mia lettura e mi diressi rapidamente verso il cadavere nella sala, lo esamina frettolosamente, l’uomo aveva al collo una strana pietra con sopra incisa una stella a cinque punte, presi quel manufatto e tornai verso il libro. Poggiai la pietra sulla pagina adiacente alle scritture e continuai a leggere a voce alta.
“Asperget humanum sanguinem in phylacterium…”
Probabilmente se non fossi stata una scrittrice e quindi se non avessi fatto studi classici non sarei mai riuscita a capire il significato di quelle parole, tradussi approssimativamente con “Fate cadere una goccia di sangue di un uomo vivo sul talismano”. La mia mano era ancora sfregiata dalle schegge dello specchio, le minuscole ferite si stavano già cicatrizzando. Iniziai a spremerle tenendo la mano sopra al libro, dalla ferita uscirono delle gocce grumose di sangue, caddero sulla pietra col pentacolo. Con mio stupore vennero come assorbite, sembrava quasi che quella strana pietra fosse viva.
Nel frattempo il mostro aveva demolito la porta riducendola a un mucchio di schegge, la sua ira satanica era spaventosa. Il demone si trovò di fronte la grata che avevo appena attivato, iniziò a scardinarla dal muro con colpi poderosi.
Ripresi la mia lettura, il libro iniziò a brillare di una luce color avorio. Il demonio diede un altro poderoso pugno alla grata scaraventandola contro la parete, si accartocciò come se fosse stata fatta di cartone. Il mostruoso essere iniziò a scendere le scale corrodendo tutto quello che calpestava, si sentì una lieve vibrazione della casa. L’acido prodotto dalla creatura iniziò a sciogliere le fondamenta.
Cercai di concentrarmi alla lettura ignorando in qualche modo quei versi disumani. Lessi la frase seguente.
“Pone in phylacterium obiectum beatorum , et dic haec formula.”
Tradussi il verso come “mettete l’oggetto benedetto sul talismano e pronunciate questa formula..” Presi la piccola croce d’argento che avevo in tasca e la misi su quella pietra maledetta.
Il talismano inghiottì anche la croce e subito dopo fuoriuscì dal libro una sorta di vortice verde. I miei capelli svolazzavano, gli oggetti presenti nella stanza iniziarono a sollevarsi, mi sentii involontariamente attratta dal libro come se fosse un enorme aspirapolvere, il demone era a un metro da me si preparava a colpirmi.
Lessi velocemente la frase successiva che questa volta però sembrava essere in tedesco.
DIE HAND DIE VERLEZT
DIE HAN DIE AZAZEL
Tradotto approssimativamente significava “sua è la mano che ferisce, suo è il luogo chiamato inferno”. Subito dopo aver pronunciato quelle parole, il vortice assunse dimensioni gigantesche arrivando fino al soffitto. Il demone sferrò il suo attacco verso di me, i suoi artigli erano velocissimi stavo per essere trafitta da quelle lame acuminate, ma successe l’impensabile.
La creatura iniziò a disgregarsi in infinite particelle verdastre, ricordo chiaramente le sue grida diaboliche simili a ruggiti. Cercai di vincolarmi all’altare per non essere risucchiata dal vortice, quel cono verde aveva imprigionato dentro di se la creatura e con un tonfo rientrò rapidamente nel libro scaraventandomi violentemente contro un muro.
Di colpo piombò la quiete il libro era sull’altare ed era chiuso, il diavolo era stato sconfitto.
Mi sollevai da terra con una certa fatica, le scalinate che conducevano ai passaggi segreti erano completamente liquefatte, non c’era modo per tornare indietro. Improvvisamente iniziai a sentire le pareti scricchiolare, una grossa crepa iniziò a formarsi rapidamente squarciando il muro, polvere e ciottoli precipitavano dal soffitto. La casa stava crollando.
Sentii d’un tratto una voce familiare «Da questa parte!», mi voltai scrutando nell’oscurità «Don sei tu?!» Esclamai sconvolta. Ingranai lo sguardo e vidi mio marito, corsi nella sua direzione «Dietro di me» disse. «Cosa?» Gli chiesi esterrefatta, «dietro di me» continuò lui. Guardai alle sue spalle, c’era una una strana cabina con una leva d’ottone. «Don come hai fatt…» Non feci in tempo a completare la frase, Don era sparito nel nulla.
Entrai nella cabina e abbassai la leva, sentii un rumore meccanico e improvvisamente un argano fece schizzare questa stravagante capsula all’interno di un cunicolo nel soffitto, dopo meno di cinque secondi sentii un tremendo rumore di marmi spaccati, uscii dalla cabina e mi ritrovai nell’atrio. Era evidentemente un rudimentale sistema di emergenza costruito da Zoltan che collegava la sua camera segreta con la casa. Mi trascinai fuori facendo attenzione al pavimento quasi totalmente distrutto, mi osservai per un attimo intorno… Le finestre erano tutte in frantumi, polvere e macerie precipitavano dal soffitto di quella enorme sala… Lo scalone si piegò su se stesso e crollò rovinosamente in una nuvola di fumo.
Mi diressi di corsa verso la porta d’ingresso, afferrai la maniglia… La porta si aprì. La tempesta fuori sembrava essere cessata.
Misi l’auto in moto e uscii dal cancello principale, frenai di colpo girandomi a guardare la scena. La casa iniziò ad accartocciarsi su se stessa, la torre cadendo alzò un’enorme nuvola di fumo.
Poggiai la testa sul volante e scoppiai a piangere.
CAPITOLO CONCLUSIVO
Come avevo detto fin dal principio, la mia storia non ha spazio nei rapporti ufficiali. Nessuno vi ha mai creduto e nessuno vi crederà mai.
Ho perso la fiducia che avevo in me stessa, ho perso l’amore della mia vita, ho perso la dignità e so per certo che non potrò mai dimenticare.
C’è però solo una cosa che oggi mi terrorizza, ho come il presentimento che il passato tornerà a farsi vivo, sono sicura che questo succederà…
…sono incinta.
FINE
Alcune domande lecite:
1) Ma quanto è cogliona Adrienne?!
2) Questi comprano una casa senza aver visto tutte le stanze?
Principali differenze tra il videogioco e il racconto
Nel gioco:
L’incubo iniziale di Adrienne è differente, puoi vedere l’originale cliccando qui
Malcolm bambino non subisce alcuno stupro da Zoltan
Lou non è la figlia di Malcolm, ma una semplice commerciante
Adrienne non sogna Don mangiarsi Daiana
Adrienne non rimane chiusa in cantina e non viene salvata da Cyrus nel pozzo
Adrienne trova il cadavere di Hortencia nella serra e non sotto a una statua nel bosco
Zoltan non fa mangiare Daiana a Victoria, bensì le da delle viscere non meglio specificate
Il cadavere di Daiana non viene trafugato dall’obitorio
Gaston non era il guardino della tenuta, ma l’assistente di scena di Zoltan
Gli abitanti del paese non distruggono l’auto di Adrienne né avviene l’incidente sulla scogliera
Adrienne non trova dei manichini nelle tombe della famiglia Carnovash
La macchina che predice il futuro non viene distrutta da Don
La lampada del drago verde, Adrienne la trova in una sala da ballo e non nella camera di Zoltan e Marie
Nel gioco Zoltan e Marie hanno due camere separate
Tutti credono che il cadavere di Gaston sia quello di Zoltan e lo seppelliscono nella tomba di famiglia insieme a Marie
Adrienne non vede Don truccarsi attraverso uno specchio
Adrienne non viene salvata dal fantasma di Don
Adrienne non resta incinta
La casa non crolla
Alcune chicche.
Esiste la possibilità che da Phantasmagoria possa essere tratto un film, qui c’è la pagina Facebook dedicata.
L’attore che nel gioco interpreta Don è mio amico su Facebook e appena andrò in California sarò suo ospite ( O_O )
Per chi volesse avere un’idea sul come si giocasse, su YouTube è pieno di video.